Inizialmente social e smartphone si sono fusi nella connessione audiovisiva permanente, funzionale ai bisogni di individui e famiglie, professionisti e imprese, sceriffi e criminali, adottata dai colti e dagli ingenui con l’entusiasmo dei novizi. Acquietato lo stupore, oggi siamo alla normalizzazione: lo smartphone è una protesi del corpo, i bilanci delle piattaforme eruttano bilioni come fosse naturale. Proprio ora monta nel campo liberal americano, che un tempo le adorava, il disincanto e la critica radicale verso le imprese che guidano il fenomeno. Sono esemplari una serie di pezzi comparsi sul New York Times in cui leggiamo che Google-YouTube, Facebook, Twitter, attente a esaltare in primo luogo il traffico, reggono consapevolmente il sacco agli utenti più dinamici e finiscono così col privilegiare quelli più “malevoli”.

Così le carismatiche big tech diventano “tech-mogul”, monopolisti non migliori di tanti che li hanno preceduti, «spacciatori di armi dell’età moderna», «turbo esaltatori di discordia», «stupratori del primo emendamento» (quello del free speech), «avvelenatori del dialogo pubblico», fautori delle «politica di forza», «divisivi per natura», pronti a fare «da grancassa al Trump di turno».

Stati disuniti

Queste citazioni le abbiamo tratte, pari pari, da contributi di parte liberal, personalità scaltrite e perfettamente consapevoli tanto delle tecnologie quanto degli affari. Tutti allarmati per l’incrocio fra le potenzialità divisive dei social e la spinta ai “Disunited states” che sta crescendo da vent’anni ed è esplosa come reazione alla vittoria di Barack Obama.

In questa temperie di questioni dalle radici molto lunghe, le piattaforme sono intervenute liberando dalla bottiglia del minoritarismo territorialistico, rurale e culturale, il genio imprigionato del leghismo americano.

Limiti e censure

Mettendola sul piano personale i critici liberal enfatizzano – sottolineandone semmai limiti, inefficienze e timidezze – il ruolo delle norme di carattere privato, dei comitati etici e delle altre fanfaluche che quegli stessi capi azienda hanno escogitato per rimuovere le espressioni scorrette del momento.

Ovviamente chi lo pensa vorrebbe che più rigore, più fede, più sorveglianti espungessero il male dalla rete. I social, con o senza i supporti d’intelligenza artificiale, sono svelti e auto replicanti alla faccia dei controlli di censura. E poi per un troll maligno che cancelli altri cento se ne stanno iscrivendo sul momento. Quindi un gestore che promettesse, come un direttore di giornale, di vagliare i contenuti prima d’inoltrarli, non potrebbe che vestire i panni dell’istrione e spargere sudore sulla scena dando la caccia alle farfalle. I più ingenui fra i troll potranno magari prenderlo sul serio ed esibire le stimmate del martire colpito da censura, ma il social continuerà a sembrare una discarica a chi lo pretenderebbe mondato dal peccato. Unici a darsi il cinque con le mani, i coordinatori di trattati e gli organizzatori dell’ennesimo aggrondatissimo convegno che riscalderà l’acqua di quelli precedenti.

La colpa è nelle regole

La qualità del mondo degli affari è decisa da norme impersonali che non poggiano sulla virtù individuali di chi le applica. In campo social le regole sulle quali intervenire sono due: la prima va cambiata, la seconda chiede d’essere varata.

La norma da cambiare è il Decency act del 1996 che esclude la responsabilità delle piattaforme circa i contenuti controversi. Una norma che oggi appare di manica assai larga, ma allora i social erano lontani da venire (ci sarebbero voluti vari anni) e si mirava essenzialmente a favorire lo sviluppo del “providing”, cioè la fornitura dei servizi sulla rete che di connotati editoriali è del tutto priva. Ma è evidente che i social sono servizi di comunicazione e di intrattenimento a tutto tondo, anche se diversi dal precedenti media, e quindi una qualche responsabilità non può che essergli congenita. Non fosse altro perché impastano, rimestano, ed evidenziano i contenuti auto prodotti dagli utenti modulandone contesti e prominenza. È così che il social diventa coautore del messaggio, sebbene in un’opera a più mani nella quale è difficile distinguere il peso dei meriti e delle colpe relative.

Ma queste grane verrebbero evitate se il cerchio fosse chiuso dalla norma di cui si lamenta la mancanza: quella che vincoli il rilascio di un account alla registrazione e al concreto accertamento, sia persona fisica o giuridica, dell’identità del richiedente, sia che voglia mostrarsi apertamente sia che preferisca uno pseudonimo. Il punto è cruciale, tant’è vero che Musk ne fa il connotato dominante di un Twitter non più bisognoso di censura perché basato su identità accertate che, dovendo rispondere in giudizio degli eventuali danni che combinano, non scherzerebbero col fuoco.

Prospettive

I Disunited states, messi come sono, è improbabile che combinino qualcosa forzando il blocco del Senato, tanto più con l’incombere di una Corte suprema che di stivali trumpiani se ne intende. La novità è che stavolta il soccorso potrebbe giungere da questa sponda dell’Atlantico, perché gli interessi dell’Unione europea non coincidono con quelli di Facebook e compagnia. Talvolta è inestimabile il vantaggio di non avere campioni propri e di arrivare per secondi.

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