Ultimamente Unicredit è assurta all’onore delle cronache per aver cooptato in consiglio, come presidente designato, Pier Carlo Padoan. Quello delle porte girevoli fra pubblico e privato è un problema annoso. E non riguarda solo l’Italia. Ma il caso Padoan è un unicum, in quanto nominato quando ancora autorevole deputato di un partito al governo, oltre che ex ministro dell’Economia. Un caso che non fa onore né al nominato né al consiglio di amministrazione che lo ha cooptato: visto il curriculum, qual è lo scopo della nomina? Contare di più a Roma?

Come sempre in Italia, quando si parla di società quotate più che di prospettive, utili e creazione di valore, l’interesse è soprattutto per le “tre p”: persone, poltrone, e potere. Non sorprende quindi che l’attenzione dei media si concentri su una nomina, invece di focalizzarsi sulle troppe incertezze dei piani di una banca fra le maggiori del paese, nel mezzo di una crisi strutturale del settore di cui non si intravvede la fine.

La “cura” Mustier

Il piano di Jean Pierre Mustier, chiamato a risollevare le sorti di Unicredit dopo che la banca aveva perso, dai massimi, l’85 per cento del proprio valore (e dopo tre aumenti di capitale per quasi 9 miliardi), per ora non ha funzionato. Ed è questo il vero problema. La banca vale oggi poco più di 14 miliardi; questo significa che l’aumento di capitale da 13,8 miliardi, lanciato quando la banca ne valeva 15 a inizio 2017, primo anno della gestione Mustier, è stato completamente bruciato.

Oltre all’aumento di capitale, nei tre anni della sua gestione Mustier ha venduto partecipazioni e attività per circa 13 miliardi, con lo scopo dichiarato di fare cassa e pagare dividendi per sostenere il titolo. Una politica miope perché in questo modo si sacrificano prospettive reddituali future per un immediato quanto effimero beneficio in Borsa. Per capirlo basta guardare al rapporto tra valore di mercato e patrimonio netto, una misura della redditività del capitale attesa dagli investitori, rispetto al suo costo storico. Per Unicredit questo rapporto è oggi appena 0,23, segno di aspettative reddituali misere, come in generale per tutta l’industria bancaria; quello che colpisce è che tutte le partecipazioni vendute da Mustier abbiano invece multipli molto più elevati: 0,53 Mediobanca; 1,2 Amundi che ha comperato Pioneer; 0,44 Pekao; 0,41 la turca Yapi Kredi; addirittura 4,5 Fineco, che oggi vale la metà di tutto il gruppo Unicredit. Sull’altare del dividendo sono state quindi sacrificate attività con prospettive reddituali nettamente migliori di quelle rimaste nella banca.

Altro spezzatino

Stando alle indiscrezioni di stampa, non solo Unicredit continuerebbe sulla stessa strada, ma vorrebbe raddoppiare non appena la Bce toglierà il divieto alla distribuzione dei dividendi. L’idea sarebbe quella di scorporare la controllata tedesca e le altre partecipazioni estere in una nuova holding, per poi collocarne una quota sul mercato, far cassa, e distribuire l’ “eccesso di capitale” ai soci sotto forma di buyback (riacquisto di azioni proprie).

L’operazione sarebbe un classico carve out attraverso il quale un gruppo quotato, quota a propria volta un pezzo delle sue attività: si crea valore per i soci solo se gli investitori valutano quel pezzo, da solo, più di quanto varrebbe se rimanesse all’interno del gruppo. Poiché dubito fortemente che ci sarebbe un grande entusiasmo inespresso per diventare soci di una banca tedesca, notoriamente tra le meno redditizie al mondo, il carve out servirebbe principalmente a far cassa vendendo un altro pezzo di attività.

Quanto all’ “eccesso di capitale” distribuibile, si fa confusione tra un indicatore di regolamentazione e quello che il mercato stima sia effettivamente un’eccedenza di capitale: la stessa Bce, bloccando i dividendi, esprime cautela sul livello di capitale di sicurezza, alla luce delle enormi incertezze sul livello futuro delle sofferenze causate dal Covid; e la valutazione in Borsa pari a 0,23 del patrimonio indica chiaramente quanto questa cautela sia condivisa dagli investitori.

A sostegno del buyback si argomenta che aumenterebbe sostanzialmente l’utile per azione, per la gioia degli analisti. Numericamente è un dato di fatto, ma difficilmente si crea valore duraturo in questo modo. Facciamo un esempio: se le attività di una società generano 30 euro di utili e ci sono 100 azioni in circolazione, l’utile per azione è di 30 centesimi; se poi con un buyback si ritirano dal mercato 40 azioni, gli utili complessivi non cambiano, ma l’utile per azione aumenta del 67 per cento, a 50 centesimi. Il buyback non aumenta la redditività complessiva degli attivi, perché questi rimangono immutati. Riduce, invece, la quantità di capitale che li sostiene, aumentando così la leva finanziaria. Un aumento della leva può creare valore in società mature che producono ricchi cash flow, stabili nel tempo; non è il caso di Unicredit, a maggior ragione alla luce delle tante incognite che pesano sulle prospettive dell’industria bancaria europea.

Il modello in crisi

Il modello di banca tradizionale è da tempo in una crisi profonda, aggravata sia dal Covid sia dai tassi negativi che comprimono il margine di interesse. La capacità delle banche di garantire un elevato e stabile flusso di dividendi dipenderà, se supereranno indenni il macigno delle sofferenze da Covid, dalla capacità di ciascun istituto di ristrutturare il proprio business. La strada obbligata sembra passare per il drastico taglio dei costi, l’automazione dei processi, la tecnologia per i sistemi di pagamento, l’innovazione nel credito agli individui, l’enfasi sulle attività che generano commissioni, le assicurazioni, l’attività di trading sui titoli ma anche sui crediti in portafoglio e la ricerca spasmodica di economie di scala.

Quale strada voglia battere Unicredit per ritrovare la redditività necessaria a valorizzare stabilmente il titolo, non mi è chiaro. E non mi aiuta a capire la ratio in virtù della quale si sono vendute Fineco, leader per redditività e automazione; l’asset management, fonte di un flusso stabile di commissioni; e la quota in Mediobanca (forse perdendo un’opportunità per scalarla,  acquisirne l’attività di credito al consumo e fonderne quella di investment banking). Questa, però, è storia: ma dovrebbe servire a chiarire i rischi del perseverare nella stessa strategia.

Un manager crea valore se il titolo della società che gestisce ha performance migliori del settore e dei principali concorrenti. Per ora, non è stato così con la gestione Mustier: da inizio 2017, Unicredit ha avuto una performance in linea con l’indice delle banche (EuroStoxx Banks) rispetto al +30 per cento di Intesa e, ironicamente, al +76 per cento di Mediobanca e +385 per cento di Fineco.

Spetterà al futuro presidente Padoan garantire che l’amministratore delegato agisca nell’interesse di tutti gli azionisti, vagliando il suo operato, sostenendolo, ma chiedendogli anche conto dei risultati deludenti. Sarà in grado di farlo?

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