Ma sì, alla fine ha vinto la censura. Non ha spento il monologo di Fedez, questo no, però si è imposta su ogni altro argomento che il 1° maggio dovrebbe metter sull’altare, a cominciare dai diritti di chi lavora o un lavoro lo cerca, lo insegue, lo sogna.

Invece, come inevitabile, i riflettori hanno puntato lì, sulla denuncia di una Rai allarmata dai nomi e cognomi che l’artista avrebbe inserito nello j’accuse a un partito, la Lega, che su gay e pregiudizi ha infilato nel tempo perle di oscena violenza. Si sono subito scomodati i precedenti.

Una sessantina di anni fa toccò a Vianello e Tognazzi prendere la porta dopo la parodia innocua di una sedia mancata dal presidente Gronchi di fianco al generale De Gaulle nel palco reale della Scala.

Tre anni più tardi una gag sulla sicurezza nei cantieri edili (eccolo un tema da 1° maggio) fece la fortuna di Dario Fo e Franca Rame accomodati senza sconti fuori da Canzonissima e destinati da lì a calcare palchi e piazze antagoniste. Questa volta su cosa dovremmo allarmarci? Stefano Balassone ha spiegato bene la distanza tra i censurati di ieri che dalla tivù di Stato dipendevano per ogni loro fortuna e il clima di ora con Fedez e altri a fondare popolarità e consenso sull’onda dei social, il che consente loro il lusso di “concedersi” alla televisione in una dialettica ribaltata nei rapporti di forza.

Stando così le cose è la logica censoria a mutare poiché da sempre è il potere che reprime e censura quanti quel potere non hanno. Morale? Più che la Rai a censurare Fedez, è stato Fedez a censurare la Rai. Col corollario che a differenza di Fo sdoganato solamente quindici anni dopo, toccherà a Fedez decidere se e quando rimettere piede nel servizio pubblico. Segno dei tempi pure questo.

«Ma che aspettate a batterci le mani» cantava il futuro premio Nobel nella sigla del ritorno in Rai scritta assieme a Fiorenzo Carpi. Parafrasando la strofa forse a Viale Mazzini intoneranno a breve, «Ma che aspettiamo a battergli le mani».

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