L’abolizione del numero chiuso per la facoltà di Medicina non risolverà i problemi strutturali. La ministra finge di non sapere che il vero fenomeno di cui preoccuparsi non è la fuga degli studenti, ma quella dei medici e degli infermieri già laureati
È stata finalmente varata, accompagnata da vigorosa fanfara mediatica, la legge sulla modalità di accesso al corso di laurea di Medicina e chirurgia. Per intenderci quella «contro il numero chiuso».
I nuovi criteri di accesso
Degli aspetti tecnici abbiamo già parlato su questo giornale, e vale la pena di ricordarne soltanto i punti essenziali. Riassumendo, la legge prevede che sia abolito il test di ingresso nazionale con domande a risposta multipla, sostituendolo con l’obbligo di iscriversi a un primo semestre in comune con le facoltà di Veterinaria e di Odontoiatria e di superare gli esami previsti.
Sulla base delle votazioni riportate verrà poi stilata, con criteri ancora da definire, la graduatoria nazionale. Chi resta fuori avrà comunque la possibilità di vedere riconosciuti i crediti maturati per iscriversi ad altri corsi di laurea in area biomedica e sanitaria.
Nulla di riprovevole in questo progetto, se non il carico esorbitante di studenti che le università dovranno gestire nel primo semestre e la necessità di uniformare a livello nazionale le modalità di insegnamento e gli esami. Farlo non sarà facile come dirlo.
C’è da attendersi un grande ricorso alla didattica a distanza ed esami inevitabilmente «a crocette», proprio quelli che Matteo Salvini attacca come farina del diavolo nei suoi manifesti.
Di quanti medici c’è davvero bisogno?
Un secondo punto riguarda il numero di ammessi, che la legge non indica, sottolineando la necessità di allinearli con i posti disponibili nei corsi di specializzazione post-laurea (che è obbligatorio concludere prima di essere assunti in forma definitiva in ospedale e che devono essere retribuiti).
Si dice anche che il numero degli iscritti dovrà tenere conto del fabbisogno del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e questo suona ragionevole. Peccato che la ministra Anna Maria Bernini e il governo abbiano già proclamato di voler estendere le iscrizioni a 30.000 studenti all’anno, nonostante i calcoli delle società mediche indichino che già con gli attuali 15.000 posti, nel 2032 (quando i nuovi studenti arriveranno alla laurea) ci sarà un surplus di alcune decine di migliaia di medici.
In conclusione, la nuova legge si presenta come costosa, difficilissima da gestire per le Università e, soprattutto, inutile. Non ultimo dei problemi è il rischio di peggiorare la qualità dell’insegnamento teorico e pratico che, per rispondere alla insufficienza degli ospedali universitari, si propone di estendere anche agli ospedali di primo livello. Quelli più piccoli, che hanno penuria di medici, casistiche limitate di pazienti e nessuna esperienza certificata nella formazione.
La politica dello struzzo
Esauriti gli aspetti tecnici, possiamo dedicarci alle ragioni politiche di tanto fervore a favore dei giovani aspiranti medici. Comincio nuovamente dalla ministra Bernini che ha detto: «Mettiamo fine all'odioso fenomeno dell'emigrazione di ragazzi e ragazze che pur di seguire la vocazione di diventare medici sono stati costretti ad andare all’estero perché respinti da test opachi e non qualificanti». Una motivazione etica dunque.
Da domani gli stessi studenti (circa 50.000 se si considerano le cifre previste di 80.000 domande per 30.000 posti) avranno la soddisfazione di poter andare a studiare all’estero perché respinti da esami trasparenti e qualificanti! Sempre che riescano ad esserlo gli esami del primo semestre, standardizzati a livello nazionale, inevitabilmente a risposte multiple, e sottratti a qualsiasi confronto diretto con i professori.
Con questo escamotage la ministra finge di non sapere che il vero fenomeno di cui preoccuparsi non è la fuga degli studenti, ma quella dei medici e degli infermieri già laureati. E che la ragione di questa fuga sono gli stipendi tra i più bassi d’Europa e il degrado progressivo del Ssn. Se già oggi mancano i soldi per porre un freno a questa crisi, non è chiaro dove si troveranno quelli necessari a formare e poi a trattenere i futuri laureati.
Il percorso è ormai noto. Invece di gestire i problemi dell’immigrazione irregolare, si costruiscono centri di detenzione in Albania. Invece di riorganizzare la rete ferroviaria, ci si dedica anima e corpo al ponte sullo Stretto. Invece di sostenere le strutture ospedaliere e territoriali del Ssn, ci si racconta che laureando un numero maggiore di medici (destinati un domani alla sottooccupazione) tutto non potrà che andare meglio.
Diritto di replica
In merito all’articolo dal titolo Non basterà laureare più medici per migliorare la sanità italiana spiace constatare come l’analisi riportata si fondi su un’informazione errata. L’affermazione «peccato che la ministra Anna Maria Bernini e il governo abbiano già proclamato di voler estendere le iscrizioni a 30mila studenti l’anno» non corrisponde assolutamente al vero.
Il ministro Bernini ha più volte evidenziato la necessità di aumentare gli accessi a Medicina, in un’ottica di rafforzamento del Sistema sanitario nazionale, intervenendo in maniera sostenibile e graduale. Sulla base di un tavolo tecnico istituito presso il ministero dell’Università, che ha visto il coinvolgimento di tutti i principali stakeholder del settore, tra cui il ministero della Salute, la Crui, la Conferenza delle regioni, Istat e la FNOMCeO, è stato stabilito l’aumento di ingresso per 30mila unità nell’arco di 7 anni. L’ultima programmazione, quella relativa all’anno accademico 2023/2024, ha previsto 21.000 posti disponibili, con un aumento di 4.000 unità rispetto all’anno precedente. Questa crescita graduale proseguirà nei prossimi anni con un incremento medio di 4.000 posti l’anno rispetto ai 17.000 del 2023, fino a raggiungere un totale di 30.000 ingressi aggiuntivi nel settennio.
Questo piano risponde all’attuale carenza di medici, frutto di un’errata programmazione negli anni passati, e mira a raggiungere un equilibrio tra domanda e offerta nel 2035.
Nel periodo 2023-2028/2029 si prevedono circa 15.000 pensionamenti l’anno, a fronte di un ingresso nel Servizio sanitario nazionale di soli 9.000-10.000 nuovi medici, con un deficit annuo di circa 5.000 unità.
Un divario che, come detto, potrà essere colmato solo nel 2035. Per garantire la sostenibilità del sistema sanitario e la qualità della formazione, evitando al contempo il rischio di disoccupazione tra i medici, il ministero dell’Università ha previsto una rivalutazione periodica del numero di accessi stabilendo la ripetizione annuale dell’esercizio di simulazione per calibrare gli ingressi in base alle esigenze reali del Sistema sanitario nazionale. Il piano del governo non prevede quindi un aumento indiscriminato delle iscrizioni, ma una crescita programmata e sostenibile, basata su dati concreti e analisi approfondite, unita a una nuova modalità di accesso alla facoltà che, superando gli attuali test, premi il merito e la preparazione.
Ufficio stampa ministero dell’Università e della ricerca
Risponde Daniele Coen: Ringrazio il ministero dell’Università e della ricerca per le precisazioni. Sulla base delle cifre citate, si può dunque calcolare che nei prossimi anni i nuovi iscritti a Medicina non saranno circa 30.000, ma circa 21.000 ogni anno. Considerando che nel 2017 erano solo 9.000, non si può negare che il carico formativo per l’Università si sia accresciuto ai limiti della sopportabilità.
Per quanto riguarda la possibile pletora di medici di qui a dieci anni, i numeri del ministero contrastano con quelli forniti da ANAAO, il principale sindacato dei medici ospedalieri, che calcola che nel 2032 ci saranno migliaia di medici in cerca di lavoro e che ha espresso un parere pesantemente negativo sulla riforma Bernini.
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