Entro quest’anno bisognerà adottare un nuovo piano di stabilità e crescita in Europa e la discussione partirà dalla proposta della Commissione che, come sottolineato da molti osservatori, ha privilegiato una semplificazione e una maggiore flessibilità rispetto al vecchio patto basato su parametri fissi.

Non che il vecchio patto escludesse soluzioni flessibili, che anzi sono state adottate in diversi casi. Ma certamente partiva dal principio che queste erano eccezioni rispetto a una regola fissa, mentre ora si riconosce che le politiche fiscali dei paesi europei devono adattarsi alle situazioni reali dell’economia e devono essere elaborate su base nazionale.

Gli aspetti

La proposta della Commissione presenta molti aspetti positivi ed alcuni discutibili. Ad esempio, è discutibile l’idea di classificare i paesi a seconda del livello del debito pubblico in tre categorie (debito sostanziale, moderato, modesto) sulla base di una serie di parametri (la Dsa, Debt Sustainability Analisys).

Una simile classificazione non aiuta a risolvere il problema del debito perché è solo definitoria, ma rischia di determinare uno stigma nei confronti dei paesi più indebitati con il risultato di rendere ancora più difficile il loro sforzo per ridurre il peso del debito pubblico. Ma, al di là delle singole osservazioni, resta un problema di fondo.

La politica economica dell’Unione Europea è la somma delle politiche economiche nazionali dei singoli paesi e il patto di stabilità e crescita si propone di riportare tutti i paesi ad un livello di debito pubblico prossimo al parametro del 60 per cento del Pil, che rimane valido dal vecchio patto.

Ora, la maggioranza dei paesi europei, a causa del Covid e poi della guerra in Ucraina, ha aumentato il debito pubblico in misura rilevante, tanto che quasi tutti i paesi hanno un debito pubblico superiore o eguale al 60 per cento del Pil.

In queste condizioni, pur con il nuovo patto, la maggioranza dei paesi europei dovrà fare politiche di riduzione del disavanzo pubblico, tendenzialmente per un buon numero di anni: ossia la politica fiscale europea è destinata ad essere restrittiva nei prossimi anni e ciò, malgrado la necessità, sempre sostenuta dall’Europa, di avviare la transizione energetica e digitale che comporterà spese non trascurabili.

Parte di queste spese potranno trovare sostegno nei contributi europei del Next Generation Eu dati a fondo perduto, ma ovviamente questi non basteranno né per garantire la transizione, né per consentire una politica di sostegno alla domanda interna, che rappresenterà l’unica fonte di crescita per l’Europa specie nei prossimi anni di deglobalizzazione che porteranno ad un indebolimento del sostegno delle esportazioni extraeuropee.

Appare sempre più evidente ed urgente l’esigenza di avviare una politica fiscale europea, accanto alla politica monetaria, fatta attraverso fondi propri europei per evitare che il Vecchio Continente sia l’unico nel pianeta a non governare la propria economia, affidandola solo a parametri di riequilibrio nazionali, il cui risultato rischia di essere deflazionista se perseguiti simultaneamente da tutti i paesi che ne fanno parte.

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