Io non sono d’accordo. Parlo di due posizioni che su questo giornale hanno riscosso consenso. L’invito a sciogliere il Partito democratico e il sostegno a Letizia Moratti alla guida della Lombardia. Sulla prima. Abbiamo perso malamente le elezioni. Vero che la destra non ha sfondato, ma redistribuito la dote penalizzando Lega e Forza Italia a vantaggio della componente più identitaria. Ora sono al potere e dal primo giorno ne danno prova. Un decreto pericoloso per l’espressione del dissenso. Un altro a calpestare il principio della dignità battezzando “carico residuale” esseri umani disperati.

Medici No-vax riammessi in corsia e condoni fiscali spacciati per volano di crescita sino ad affossare il reddito di cittadinanza, tanto per confermare che la povertà è una colpa. Dinanzi a questo registro la priorità sarebbe attrezzare un’opposizione capace di incalzare un governo prodigo di errori e qualche gaffe. Ora, la via migliore per riuscirci è che il Pd porti i libri in tribunale? Altro, si capisce, è invocare una discussione franca sulla rotta da prendere e arrivo così all’altro suggerimento, non farci sfuggire l’occasione di vincere in Lombardia con Letizia Moratti.

Davvero può vincere?

La premessa è che solo un tardo settarismo avrebbe impedito al Pd di cogliere un simile e inatteso vantaggio. Non ripeto concetti noti se non che il Pd di quella regione ha discusso l’opportunità escludendo di poterla far sua e indicando il nome, condiviso nella coalizione, di Pierfrancesco Majorino. Un argomento però merita una replica, l’idea che la sinistra può battere la destra solo con la Moratti.

Davvero è così? Perché è vero che il suo curriculum ha scarsi eguali, ma è pure vero che nella prima sfida dall’esito incerto – quella con Giuliano Pisapia – nonostante una campagna sontuosa per risorse fu la Milano arancione di Giuliano a festeggiare. Senza pregiudizi di classe voglio dire che alla prova dei fatti una cosa è la spinta di giornali, tivù e legittimi interessi, altro la capacità di aggregare quel consenso di popolo che non sempre transita da incroci e snodi del potere.

Aggiungo un’ultima obiezione, anzi a dire il vero è solo il ricordo di una scena formidabile in quel capolavoro che è stato Le mani sulla città. La storia è nota. C’è un candidato sindaco, De Angelis, un superbo Salvo Randone.

Tra i sostenitori deve gestire un palazzinaro discusso, tale Nottola, a interpretarlo Rod Steiger. C’è poi un uomo perbene, si chiama Balsamo. Quest’ultimo una sera si reca in casa di De Angelis per comunicargli la decisione di non volersi più candidare nella sua lista. Gli spiega che non sente di associare il suo nome a chi non corrisponde a valori e coerenze che l’impegno pubblico pretende.

Nel chiarire che tra il pessimo Nottola e Letizia Moratti non vi è nesso alcuno, il dialogo tra i due è una testimonianza preziosa per l’attualità in barba ai sessant’anni che ci separino dalla pellicola. Perché il sindaco cerca di convincere l’altro a desistere dal proposito sino a che, per chiudere la questione, gli rivolge un interrogativo, «lei sa, caro Balsamo, qual è l’unica colpa in politica? L’unica colpa in politica è essere sconfitti!».

In quei quattro minuti è condensata la crisi di questo paese e al fondo anche della sinistra. Non avere mai chiarito qual è la soglia oltre la quale non è legittimo spingersi se l’obiettivo è unicamente vincere, anche a costo di venire meno a principi e politiche seguite sino lì.

Governi obbligati

Nella vicenda lombarda il punto non attiene a una questione morale, ma a un nodo politico altrettanto rilevante, e cioè se migliaia di militanti e cittadini che nel centrosinistra si riconoscono reputino credibile affrontare l’avversario con una figura espressione di quello stesso campo seppure illuminata da conversione improvvisa.

Una personalità che, se le condizioni l’avessero favorita, sarebbe adesso la candidata della destra alle prossime elezioni. Sento ripetere che avendo governato con Berlusconi e Salvini non avremmo le carte in regola per avanzare la critica.

Faccio notare che quelli erano governi obbligati dall’emergenza. Altro è scegliere di farsi rappresentare da chi sino a ieri abbiamo contrastato per l’azione e le scelte che interpretava. La domanda, infine, è se tutto ciò, compreso l’assillo della vittoria “a prescindere”, possa avere un senso. Per parte mia credo non lo abbia fosse solo perché esiste una differenza irriducibile tra la possibilità di “perdere” e la ragionevole certezza di “perdersi”. Valeva oltre mezzo secolo fa nella Napoli raccontata da Francesco Rosi. Credo valga oggi, ottocento chilometri più a nord, ai piedi della Madonnina.


 

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