È scontato che, per modello di business e intrinseca struttura, i social: frammentano il “popolo” in cerchie di affini con affini sorde l’una all’altra; ingigantiscono il diluvio di fake news e l’estraneità del singolo all’argomentare politico-statuale; spezzano il rapporto fra il popolo e le élite di governo, finanziarie e culturali. Ma ciononostante, qualche grido d’allarme pare fuori di misura e di bersaglio e dunque vano.

Un esempio fra i più recenti è quello di Daron Acemoglu (economista del MIT) che (lo segnala Erik Lambert) vede il nocciolo del dramma non nelle fake news, ma nella più complessiva sostituzione della socialità “reale” con quella “artificiale”.

Una diagnosi che molti sarebbero pronti a sottoscrivere, rimpiangendo il tempo in cui ci si parlava faccia a faccia e – fra una battuta al bar, un passaggio in sacrestia, una riunione di partito – si coltivavano convinzioni e scelte di voto alle elezioni.

Un mondo tramontato, ma non per opera dei social bensì per il dissolvimento delle solidarietà di interessi che “oggettivamente” lo tenevano incollato ad opera del solvente dei robot e dello scambio globale di finanza e di lavoro, avviati decenni prima che il primo social comparisse.

Tuttavia non è nuovo il gesto di attribuire ai media la causa di quanto avviene nelle cose.   

 Nel 1997 Giovanni Sartori, politologo rispettato a cavallo dell’Atlantico, scrisse un libello sull’involuzione da homo sapiens a homo videns a seguito della atrofizzazione  intellettuale del secondo in quanto preso dalla televisione che, per la prima volta nella storia, anteponeva l'immagine alla parola deformando linguaggio e comprensione e rarefacendo il pensare astratto e dell'attività simbolica senza di che si diviene meno pronti a distinguere tra falso e vero, fra vaneggiare e ragionare. Sicché quell’homo videns era in effetti cieco se chiamato a una scelta elettorale. 

Tv “cattiva maestra”

Già nel 1994 peraltro, poco prima di Sartori, il filosofo Karl Popper s’era chinato sulla catastrofe della televisione realizzata, in cui vedeva una “Cattiva maestra”, educatrice di violenza. Al punto di proporre la “patente” per condurla come col farmacista, l’insegnante e per guidare l’automobile.

La patente di Popper è rimasta ovviamente nelle nuvole perché la comunicazione non è riducibile a un manuale con le regole. Ma sul momento si levò un corale “mio Dio! Quanto ha ragione!”” nell’ecosistema degli opinionisti di maniera e dei pedagoghi esperti in freno a mano.

Sicché legioni di lettori e di studenti hanno preso l’idea della patente come un distillato della scienza e i più lungimiranti hanno colto l’occasione per ottenere l’incarico di guardiani retribuiti dallo Stato.

Oggi la televisione che Sartori e Popper condannavano è divenuta nostalgia, quanto meno grazie al carattere di evento comunitario e quotidiano. Ma ovviamente chi avrebbe condannato condannava la tv d’allora oggi si costerna per i fenomeni dei social.

Scandalo e progetto

Il guaio autentico è che, allora come oggi, le critiche alla moda intasano il dibattito fornendo scappatoie a chi bada a tenere tutto tale e quale. Come il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg condanna parolacce e nudità con una mano, ma le incentiva per obbligo di business con quell’altra.

In sostanza, la costernazione è un diversivo rispetto alle questioni di tipo strutturale ovvero alla fonte dei problemi.

Ad esempio, la tv italiana poteva svilupparsi decentemente se la concorrenza quattro decenni fa non fosse stata soffocata nel rimpallo fra politicanti e conflitti d’interessi a favore del monopolio commerciale con la Rai posta a guardiana.

Analogamente, le cerchie dei social potrebbero essere stimoli d’incontro invece che trappole e caverne di Platone se, anziché perdere tempo a maledirle si lavorasse alla possibilità più che concreta di un mondo social concorrenziale in quanto decentrato dalla parte dell’utente.

Così, dedicandosi al progetto e occupata la mente, perfino il costernato troverebbe pace.

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