Rimuovere dalla New York City Hall la statua di Thomas Jefferson, padre fondatore degli Stati Uniti d’America, non è una cosa da nulla. Le motivazioni sono limpide: il terzo presidente degli Stati Uniti, nato nel 1743 e morto nel 1826, era proprietario di schiavi, e celebrarlo come mito condiviso — questo fanno le statue nei luoghi pubblici — esclude dalla celebrazione la popolazione afro-americana; perciò la statua verrà trasferita in un museo, dove la sua funzione simbolica verrà neutralizzata — questo fanno i musei.

Le conseguenze di questa decisione sono dirompenti: perché appunto Jefferson non è un qualsiasi proprietario di schiavi bensì il simbolo di una nazione. Bisognerà rimuoverne il volto da tutte le facciate e smettere di citarlo? E poi che fare con gli altri padri fondatori, tutti maschi bianchi? Contestualizzare, sì: ma poi non è detto che resti alcunché da celebrare. 

Se andiamo a scavare sotto i simboli e dietro ai miti è molto probabile che troveremo una miniera di fatti orrendi, e nessun simbolo o mito buono per fondare una società. Il dilemma lo metteva in scena John Ford nel film L’uomo che uccise Liberty Valance: talvolta bisogna “stampare la leggenda” e dimenticare i fatti.

Il problema è che i fatti, alla fine, risalgono in superficie; ed è difficile, poi, fare finta di niente. Non è vana paranoia chiedersi fin dove andrà questo processo di decostruzione, e se non rischia di pervenire agli organi vitali del corpo sociale. 

Ogni gruppo umano ha bisogno, per dare forma al patto sociale, di un immaginario condiviso. Se il politicamente corretto, visto da qui, appare assurdo è perché non riusciamo a prendere coscienza del fatto che stiamo vivendo un momento rivoluzionario, in cui le vecchie regole semplicemente non valgono più.

Il dibattito americano ci mostra quello che succede quando un immaginario entra in crisi: possiamo opporre resistenza quanto vogliamo, ma se quell’immaginario cessa di funzionare — se divide invece di unire — allora l’unica cosa da fare è… cominciare a costruirne uno nuovo.

Di tutta evidenza, il mito dei padri fondatori non è più adatto a fondare una società multietnica come quella americana. Ma che dire dei nostri miti e dei nostri simboli? Oltre alla questione razziale, numericamente più circoscritta in Italia, siamo confrontati a questioni di giustizia sociale, ecologica, di genere, nonché a una tentazione sempre più diffusa di sottrarsi al patto sociale, oggi espressa dal movimento antivaccinista. L’economista Thomas Piketty è tornato sulla questione nella sua Breve storia dell’uguaglianza (La Nave di Teseo) per insistere sul crescente divario tra le promesse della società liberale e una realtà economica sempre più diseguale.

I simboli della modernità politica, che celebriamo da due secoli, hanno perso ogni efficacia. Come costruire, allora, un nuovo immaginario condiviso, partendo da quali miti, da quali storie? Stampate la leggenda! Va bene, ma prima bisogna scriverla.

© Riproduzione riservata