Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha dichiarato che in Europa c’è accordo per evitare la reintroduzione del patto di stabilità almeno sin quando il prodotto interno lordo non sarà tornato al livello precedente lo scoppio della pandemia. La posizione ha certamente senso, vista la devastazione che il lockdown ha portato all’attività economia, soprattutto a quella legata ai servizi.

A voler essere maliziosi, tuttavia, ci si potrebbe chiedere se il riferimento è al livello del Pil medio dell’intera Eurozona oppure solo a quello italiano. Nel secondo caso, il momento della reintroduzione del patto di stabilità, che qui da noi è ormai fatto coincidere col concetto di “austerità”, potrebbe essere ancora più remoto.

 Il livello del Pil italiano, allo scoppio della pandemia, era infatti ancora inferiore a quello precedente la crisi della zona euro. Da qui i logoranti negoziati tra Roma e Bruxelles, fatti di eccezioni alle regole e ricerca frenetica di quella “flessibilità” che quasi sempre ha coinciso, negli anni, con deficit aggiuntivo e non esattamente finalizzato ad investimenti.

Occorre distinguere, con realismo: la pandemia ha causato ovunque una esplosione di debito, che nei prossimi anni dovrà essere gestito. In prima fila, in questa operazione, ci sono le banche centrali, impegnate a tenere basso il costo del denaro ma anche a fronteggiare un crescente numero di effetti collaterali che rischiano di sfociare in instabilità finanziaria e crisi conclamata di fiducia verso la moneta.

Il mantenimento di tassi d’interesse molto bassi sarà la precondizione per evitare gravi crisi di debito. Ma lo stock di debito accumulato, a meno che non si verifichino pericolose fiammate inflazionistiche, potrà ridurre il proprio peso reale sull’economia solo con la crescita. E qui entra in gioco il processo di “rigenerazione” voluto dalla Ue, quel Next Generation EU che in Italia pare essere vissuto come una sorta di appuntamento col destino e con la storia, quasi un indennizzo dovuto per anni di punitiva austerità che spesso mai è stata davvero tale.

Attorno al “piano di ripresa e resilienza” si è ormai formata una sorta di mistica, che ignora o finge di ignorare le premesse del dissesto italiano, fatto di incapacità a programmare e di una assenza di fiducia tra parti sociali che concepisce lo Stato come una controparte negoziale in un gioco a somma zero, dove occorre catturare la maggior quota possibile di benefici per sé ed il proprio gruppo sociale di appartenenza. Lo stesso dibattito su Stato e mercato appare un gioco di ombre entro una dinamica oligarchica che prescinde dai formali assetti proprietari, pubblici o privati.

Da noi si è discusso e polemizzato, nei giorni scorsi, sul fatto che la Francia ha già presentato il proprio piano di ripresa e resilienza, con capitoli di intervento già corredati da numeri, mentre l’Italia è passata dall’intenzione di “chiedere un acconto” del Recovery Fund entro fine 2020 alle dichiarazioni rilassate su una tempistica di erogazione dei fondi che si situa nel primo semestre del prossimo anno. Nell’attesa, eventi mediatico-simbolici come i cosiddetti “Stati generali”, che sono stati anche un momento di raccolta corporativa di istanze, hanno prodotto l’esatto nulla che i più cinici si attendevano.

Il deficit non è tutto

Anche a pandemia sconfitta, in Europa e nel mondo non si tornerà allo status quo ante economico. Non immediatamente, almeno. Scontato e giustificato attendersi un maggiore intervento pubblico in chiave di sostegno alle fasce più deboli della popolazione. Ma anche questo pur necessario aggiustamento poggerà sulla ineludibile premessa dell’esistenza di una cosa chiamata crescita economica. In Italia pare invece essersi radicata una antinomia tra crescita e redistribuzione che è sempre stata presente nel dibattito pubblico ma che ora è decisamente esplicitata. Saldandosi ad un’altra credenza, quella che vuole il deficit come motore primo se non addirittura unico della crescita, il nostro paese si accinge a tentare di amministrare in un quinquennio oltre 200 miliardi di fondi europei.

La Banca d’Italia, in audizione parlamentare, ha già avuto modo di segnalare che per un quinquennio dovremmo raddoppiare la quota storica di investimento annuo, sulla premessa di efficacia ed efficienza di tale investimento a porre le basi per un aumento della produttività del sistema e di un habitat favorevole all’iniziativa d’impresa. Se tutto andasse nel migliore dei modi possibili, secondo il modello econometrico della nostra banca centrale, potremmo conseguire una espansione di circa lo 0,6% annuo. Utile ma non risolutiva ad invertire una tendenza negativa che dura da troppo tempo, e che viene accentuata da una depressione demografica che rischia di rendere infausta la prognosi per il nostro paese.

Dopo aver invocato per anni un fantasioso “Piano Marshall”, quasi come se il paese dovesse essere ricostruito dalle macerie di una guerra che in realtà abbiamo soprattutto combattuto contro noi stessi, vivere il Next Generation EU con la stessa mentalità con cui siamo giunti a questo punto servirà solo a certificare il fallimento.

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