«Ora più che mai è necessario rimanere uniti», dice il capo dello Stato Sergio Mattarella in un 25 aprile che ricorda una liberazione e ne promette un’altra, da quella dal fascismo a quella dalla pandemia. Gli appelli all’unità valgono anche le forze politiche, costrette a rimanere unite almeno fino alla fine del semestre bianco, cioè fino alla scelta del successore di Mattarella a gennaio 2022. E chissà se quell’unità sarà convivenza forzata oppure, come ipotizzava ieri su questo giornale Rino Formica, una infinita campagna elettorale verso elezioni anticipate che permettano di avere un parlamento nuovo a occuparsi delle riforme previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Oggi Mario Draghi inizierà a presentare il Pnrr al Parlamento, entro venerdì lo consegnerà a Bruxelles e così si chiuderà la prima parte di questa vicenda, iniziata male (l’inutile show di villa Phampili di Giuseppe Conte quasi un anno fa) e continuata e senza un vero dibattito pubblico intorno a scelte strategiche sul futuro del paese (chi ha deciso che vogliamo l’idrogeno? E l’alta velocità Salerno-Reggio Calabria?).

Ora si apre una nuova fase, nella quale i partiti tornano inevitabilmente centrali. Draghi può aver gestito in notevole autonomia la stesura del Pnrr, ma non può riformare da solo la pubblica amministrazione, la scuola, il mercato del lavoro… E dunque? Finora soltanto la Lega ha dimostrato di avere un’agenda: cerca di imporre temi e misure, ingaggia battaglie di principio (il coprifuoco alle 23), a volte vince, altre perde. Ma Pd e Cinque stelle sembrano subire questo governo, come se non fosse cosa loro, anche se esprimono ministri importanti.

Tra eletti e vertici del Movimento ci sono troppi nostalgici del Conte 1, altri nostalgici del Conte 2, altri troppo preoccupati per i propri destini individuali per occuparsi anche del governo.

Pure nel Pd i reduci del Conte 2 vivono il governo Draghi come se non fosse affar loro: il segretario Enrico Letta, nuovo arrivato, duella via Twitter con Matteo Salvini, ma non si percepisce finora un suo contributo all’azione di governo. Forse per timore che ogni intervento sembri una critica a Mario Draghi.

Il risultato di questa situazione paradossale è che l’azione dell’esecutivo sembra dettata da Matteo Salvini, da un lato, e da Mario Draghi dall’altro, con giornali e talk che già ripropongono i soliti, estenuanti schemi che degradano la politica a conflitto tra personalità.

Adesso bisogna decidere come riempire di contenuto le etichette delle riforme nel Pnrr, quelle da cui dipende la sostenibilità del nostro debito ormai al 160 per cento del Pil. Pd e Cinque stelle hanno la loro occasione di contare qualcosa. Oppure possono lasciare il governo Draghi al centrodestra dove qualcuno comincia anche a coltivare l’idea che se Draghi non dovesse andare al Quirinale nel 2022 potrebbe diventare anche il volto presentabile di uno schieramento pieno di impresentabili ma maggioritario. L’alternativa è creare le condizioni per andare al voto a inizio 2022, ma non è certo facile e non è detto che un atteggiamento distruttivo in questo momento poi paghi alle urne. Quel dibattito che manca sulle riforme sarebbe posticipato di quasi un anno, e la crescita che da quelle riforme dovrebbe derivare slitterebbe in un futuro ancor più remoto.

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