Le relazioni fra Roma e Washington hanno toccato i minimi storici con la nuova presidenza Trump. Esaurita l’alleanza col comune nemico comunista di Giovanni Paolo II e Reagan, Bergoglio e Trump incarnano due opposte visioni cristiane del mondo
Dalla sua elezione al soglio di Pietro nel 2013, sono bastati due anni per rompere la luna di miele fra papa Francesco e la chiesa cattolica statunitense. Un editoriale pubblicato sul New Yorker ravvisava i germi dell’incompatibilità fra la riva atlantica e quella tiberina già nel 2015, quando lo stile sinodale del papa argentino si scontrava con il rigorismo dei vescovi nordamericani più conservatori. Ora tutti loro, come l’arcivescovo di New York Timothy Dolan, creato cardinale da papa Benedetto XVI, sono stati messi fuori gioco. Eppure, era stato proprio Ratzinger ad aver messo in guardia i presuli d’Oltreoceano dal creare scismi contro l’unità ecclesiale, anche quando personalità politiche dem mostravano l’incompatibilità tra la professione di fede e le istanze pro-life assimilate dagli ortodossi come dogmi. Con Francesco lo scontro si è riacceso, come spiega John Stowe, vescovo della diocesi di Lexington, criticato per le sue aperture in linea con la chiesa in uscita targata Bergoglio: «Con lui è stato evidente che le questioni stavano diventando molto divisive all'interno della chiesa Usa, per cui alcuni vescovi hanno cercato di minimizzare la portata sulla sinodalità voluta dal pontefice».
Dal Tevere all’Atlantico
Lo scontro si è poi esacerbato con l’avvio della seconda presidenza di Donald Trump, quasi un punto di non ritorno con i massicci rimpatri dei migranti indocumentados che l’amministrazione Usa, con il supporto dell’Immigration and customs enforcement, sta effettuando capillarmente su tutto il territorio. Papa Francesco non è stato in silenzio, e ad inizio febbraio ha inviato una lettera ai vescovi americani criticando duramente il provvedimento: «Sto seguendo da vicino la grande crisi che si sta verificando negli Stati Uniti con l’avvio di un programma di deportazioni di massa. La coscienza rettamente formata non può non compiere un giudizio critico ed esprimere il suo dissenso verso qualsiasi misura che tacitamente o esplicitamente identifica lo status illegale di alcuni migranti con la criminalità», recita la missiva.
Parole che hanno incrinato i rapporti diplomatici con la Casa Bianca, come spiega monsignor Stowe: «L’amministrazione Trump travisa la nostra missione, suggerisce l’idea che noi vescovi sosteniamo stranieri criminali. A livello pratico, questo si traduce con il taglio dei fondi al nostro programma di sostegno per i rifugiati, e questo è problematico per la nostra fede. In questa campagna di disinformazione, è difficile per noi convincere i fedeli che non supportiamo un’immigrazione incontrollata».
Il disincanto verso Francesco
Per capire la genesi di tutto, occorre ritornare al 2015, l’anno del disincanto americano per il papa argentino. In visita al Congresso Usa, Francesco imperniò tutto il suo discorso su una visione del sogno americano, insieme pragmatica e pneumatica: «Mi rallegro che l’America continui ad essere, per molti, una terra di “sogni”. Sogni che conducono all’azione, alla partecipazione, all’impegno. Sogni che risvegliano ciò che di più profondo e di più vero si trova nella vita delle persone. Negli ultimi secoli, milioni di persone sono giunte in questa terra per rincorrere il proprio sogno di costruire un futuro in libertà».
Cristiani uniti d’America
Nell’America del tycoon e del vicepresidente JD Vance, però, questo sogno va sacrificato in nome di un ordine morale. Vance, l’hillbilly convertito al cattolicesimo di recente, scomoda addirittura l’ordo amoris di Tommaso d’Aquino per sostenere una presunta visione cristiana nella sospensione dei diritti dei migranti. Intervistato alla Cbs, ha poi lanciato il guanto di sfida alla Conferenza episcopale statunitense (Usccb), critica verso la caccia al rifugiato incoraggiata pure nelle chiese e la sospensione dei programmi di aiuto e assistenza finanziati a livello federale.
Lo scontro fra la Casa Bianca e l’Usccb è, così, finito in tribunale: «Spero che si aprano diverse cause contro l’amministrazione Trump, e che lo rallentino», auspica Stowe. «Ma i vescovi devono mantenere l’unità. Perché, se perdiamo il nostro senso di compassione, perdiamo la nostra nazione». In questa guerra senza esclusione di colpi, Vance rappresenta i nostalgici di una chiesa preconciliare ostile a qualsiasi contromossa vaticana degli anni di Francesco.
Questo apre nuovi scenari, vescovi come Stowe lo vedono nelle loro diocesi giorno dopo giorno: «Oggi la vera sfida è convincere le persone ad esercitare più compassione. La chiesa negli Usa è nata dagli immigrati ma Trump, entrando in dialogo con i cattolici, ha cambiato le carte. Molti pensano che porterà prosperità economica, e ho parrocchiani che ascoltano prima Trump, poi i vescovi. Oggi paghiamo il costo di chi lo ha sostenuto Trump concentrandosi esclusivamente sull’aborto».
Non mancano vescovi come monsignor Thomas Wenski di Miami che, alla ricerca di un dialogo con la Casa Bianca, contestualizzano la posizione dei presuli statunitensi. Ma mai come in questo momento la Chiesa in uscita di papa Francesco appare lontana dal giardino chiuso e sempreverde della Casa Bianca.
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