I tempi che viviamo restituiscono una certezza: abituarsi al peggio è possibile. Il clima di assuefazione generale è tale da ritenere poco rilevante quanto sta accadendo con il caso dello spionaggio di Stato tramite lo spyware Graphite, prodotto dalla società israeliana Paragon. Ora sappiamo per certo del ruolo dei servizi segreti, in particolare dell’agenzia impegnata a garantire la sicurezza esterna, l’Aise, nel monitoraggio invasivo degli attivisti della ong Mediterranea.

La questione è però tutt’altro che chiusa: perché spiarli? C’è un legame con il caso del generale libico Almasri? E ancora: chi ha infettato con il virus spia il telefono del direttore di Fanpage.it, Francesco Cancellato? Perché spiare un giornalista? E quale mano si nasconde dietro questo abuso, visto che nel suo caso di sicuro non si è trattato dell’Aise? Pare più una faccenda sfuggita di mano nelle stanze dell’altra agenzia, l’Aisi. Ipotesi, suggestioni. È così?

Da qualunque parte conduca questa storia meriterebbe prime pagine e aperture di telegiornali ogni giorno fino all’individuazione dei responsabili. Eppure rispetto allo spionaggio di Stato ha trovato più spazio l’arresto di un Lacerenza qualunque, l’ex compagno della figlia di Wanna Marchi nonché proprietario della ormai famigerata Gintoneria di Milano ed elevato nell’olimpo della celebrità trash da Giuseppe Cruciani de La Zanzara.

Al contrario, l’indignazione per le scorribande di Fedez e i testi di Tony Effe svanisce nella reazione dominante su Paragon. Qui regnano il silenzio o al massimo dichiarazioni di circostanza, vaghe, di chi è obbligato a timbrare il cartellino. Indifferenza, certo, menefreghismo, altrettanto. Frutto della sconnessione tra la politica e i cittadini. In questa assenza di comunicazione la prima non è più in grado di trasmettere principi per i quali vale la pena battersi.

Il silenzio è fisiologico da parte della maggioranza, per forza di cose tace, c’è il timbro di palazzo Chigi sull’operazione, è lì che siede l’autorità delegata ai servizi segreti, Alfredo Mantovano, il braccio destro di Giorgia Meloni. Da lui passano, recita la legge sui servizi, le autorizzazioni per le intercettazioni preventive da far approvare poi alla procura generale di Roma.

I silenzi di chi governa, dunque, non sorprendono di fronte a uno scandalo di tali proporzioni, che in un altro Paese dell’Europa avrebbe tenuto banco per mesi e portato probabilmente a dimissioni e confessioni. Stare zitti in attesa che passi la buriana è una strategia, quasi un riflesso pavloviano per chi detiene il potere. La strategia raggiunge lo scopo prefissato solo se però dall’altra parte non esiste una contrapposizione, un’opposizione in grado di mettere alle strette il governo.

Alla scoperta che c’è il timbro dell’intelligence sullo spionaggio degli attivisti impegnati nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo, ci saremmo aspettati manifestazioni, piazze di protesta, un pizzico di indignazione almeno. E invece? Le note o i commenti rilasciati alle agenzie da esponenti dell’opposizione si contano sulle dita di una mano. E mai i leader hanno messo la loro faccia.

Ogni giorno, giustamente, decine di commentatori, editorialisti, capi dell’opposizione allertano i loro lettori ed elettori con analisi sul pericolo che corre la nostra democrazia, con l’eterno fascismo, M. che ritorna nei saluti romani delle sfilate delle nuove camicie nere. Poi però quando dalla teoria si passa alla pratica il vivace dibattito si spegne.

Il caso Paragon spaventa meno delle braccia tese? Scorre via, trattato il giusto, senza troppa convinzione, come se non fosse un tratto di quella strada in costruzione che va in direzione di una democratura in stile ungherese e proseguirà chissà verso quale altro modello illiberale. O meglio, sappiamo benissimo la destinazione finale: vedere alla voce ddl Sicurezza e l’articolo che dà mano libera ai servizi segreti, gli stessi dello spionaggio degli attivisti e chissà di chi altro.

L’indifferenza attorno al caso Paragon potrebbe, tuttavia, essere il sintomo di un male più profondo della politica e della società. La morbosa ossessione per il gossip giudiziario. Per soap opera criminali, condite da vip, gin e cocaina, l’orizzonte ristretto dei partiti che vivono alla giornata sfruttando l’emozione del momento, cittadini disorientati e diffidenti rispetto ai palazzi della politica (il dato sull’astensione è indicativo), che probabilmente, stretti tra bisogni impellenti e povertà crescente, hanno altre priorità che condannare lo spionaggio di Stato. La penserebbero forse diversamente se ci fossero partiti in grado di farsi capire, di parlare in linguaggio del popolo e non dei social?

Forse varrebbe la pena dedicare del tempo, fuori dalle pagine virtuali, a spiegare ai cittadini i pericoli che corre la democrazia, dunque le libertà individuali. Anche per non lasciare che certi atteggiamenti arroganti del potere siano considerati la normalità, una consuetudine con cui convivere: un po’ come sarebbe stato necessario fare con la mafia, secondo l’insegnamento di un illuminato ministro della Repubblica del governo di Silvio Berlusconi.

Prepotenza che ritroviamo sia nel caso Paragon sia nell’insulto a favore di telecamere rivolto dal potente meloniano Giovanni Donzelli al cronista del Fatto Quotidiano Giacomo Salvini: «Finché c’è quel pezzo di m… non parlo». Non c’è alcuna ambiguità in chi non vuole definirsi antifascista. La strada è quella. Sorvegliare e punire. Come definire tutto questo a noi è fin troppo chiaro.

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