Italia e Germania, due stati giovani, due grandi culture nazionali costruite in quasi mille anni; sui loro rapporti grava tale lunga storia, generatrice anche di luoghi comuni. Debito e colpa, cattolici e protestanti, stima sì amore no, o viceversa, ferocie e tradimenti (immemori noi delle nostre ferocie, altri dei loro tradimenti). Dopo la spietata auto-analisi altrui sul Nazismo noi, che sul Fascismo abbiamo glissato, dobbiamo rimuovere la terribile condanna manzoniana della «rea progenie...cui fu prodezza il numero, cui fu ragion l’offesa/e dritto il sangue e gloria il non aver pietà».

Su questo tormentato rapporto gira il futuro europeo. Siamo un grande paese, che però non vuol saperne di esserlo, forse perché così crede di sfuggire ai doveri dei grandi. La spensieratezza prima del Caf, poi di Berlusconi, ci caricò di debiti; nessun saldo primario positivo li scalfisce se la crescita resta elusiva, ma l’Europa senza Italia sarebbe mutilata, nel corpo e nello spirito.

La Germania sa, almeno dal 1989, di essere tornata, per peso politico ed economico, il gigante al centro d’Europa, ma si conduce come un’Olanda, solo un po’ più grande; mercantilista, soddisfatta della propria probità finanziaria reale spesso, talora presunta, sempre tarata su un’economia domestica, non sul ruolo di guida di una comunità di mezzo miliardo di persone.

Saranno duri i negoziati sul nuovo Patto di stabilità e crescita, che dal 2023 sostituirà il precedente. Nell’attesa per il Wunderteam è sceso in campo un grande tedesco, Wolfgang Schäuble; scalda i muscoli e chiede il ritorno allo Schwarz Null, lo zero nero, nei conti pubblici, ma usa argomenti fallaci.

Il problema non è la restituzione dei debiti, ma il loro assorbimento con la crescita, il rischio non è la svalutazione dell’euro; la politica monetaria accomodante non arricchisce chi possiede titoli pubblici, se il loro rendimento è negativo! Competitività e sostenibilità finanziaria sono sì competenze nazionali, ma esse in Europa non soffrono tanto per gli eccessivi debiti pubblici, quanto per le note falle dell’Eurozona. Mancano due pilastri, il primo è l’unificazione dei mercati finanziari, di cui però non si parla più; il secondo è l’unione bancaria, ferma perché Berlino blocca l’assicurazione europea sui depositi, invano chiesta dalla Bce fin dal 2016 (ne ha parlato qui Mario Seminerio). Alla fallacia di quei ragionamenti supplisce però la forza tedesca, onde il finale avvertimento alle cicale: non crediate d’aver gabbato il santo, serve una nuova istituzione capace di imporre il rispetto delle regole.

La versione di Laschet

Il ruvido Schäuble ha però ragione a ricordarci una semplice verità: da come gli stati gestiranno il Next generation Eu (Ngeu), dipenderà se andremo verso una maggiore integrazione, o se attinto lo Zenith, essa recederà. Intervistato dal Financial Times, anche Armin Laschet, candidato cancelliere della Cdu, ripete il mantra della ever closer union, ma ne respinge premesse e conseguenze. Parlando da Aachen (Aquisgrana per noi), ai confini con Olanda e Belgio, si contrappone alla «ragazza dell’Est» – come Helmuth Kohl chiamava Angela Merkel – ritenuta meno sensibile all’ideale europeo; anch’egli vuole però lo zero nero, a costo di rinviare investimenti utili e urgenti. Anche per lui il Ngeu, con l’emissione di debito comune, deve restare una tantum. Non è chiaro, allora, cosa egli intenda quando chiede «una politica economica europea». Senza l’assicurazione comune, i denari dei depositanti non si muovono fra paesi, i sistemi finanziari non sono vasi comunicanti, non può esistere una vera banca europea; i risparmi di certi paesi sono meno garantiti, le loro imprese pagano più il denaro, con tanti saluti all’invocata unione. Il punto più importante è però un altro: anche per Laschet l’Eurozona tutta dovrebbe vivere, come la Germania, di domanda esterna.

Peccato che, specie in tempi di guerre commerciali, non esista al mondo domanda capace di assorbire i prodotti di un’Eurozona modellata sulla forma della Germania.

Il modello non potrà nemmeno essere un’Italia in quieta attesa che lo stellone o altra superiore entità ci tragga fuori dalla buca in cui ci siamo cacciati; ancora non capiamo, dopo trent’anni, che non c’è più lo spauracchio dell’Urss a salvarci dalla nostra imprevidenza. Cattolici o protestanti, i nostri debiti resteranno a noi, lasciamo in pace il Padre Nostro.

Per noi i conti non contano

La Germania vota fra tre mesi, in disparte è la Francia, ma senza di lei non avremmo mai avuto il Ngeu. È il possibile punto di equilibrio, va al voto fra un anno. Se la forte Germania pensa e parla, la fragile Italia tace, forse non pensa abbastanza; le elezioni sono (si spera) lontane, ma i partiti sono “non pervenuti”. Il loro dibattito, pur costretto a occuparsi del Recovery plan, non si schioda da riaperture e vaccini, i più “tecnici” arrivano solo a vituperare stancamente l’austerità alemanna. Le riflessioni serie sono limitate a stretti ambiti scientifici. Eppure incombe la revisione del Patto sospeso; non si lagni chi, giustamente, sostiene la superiorità della politica se al silenzio supplisce, felpato, Mario Draghi, presidente ben più politico di chi pratica solo la politique politicienne. È meglio così, è la nostra carta migliore per vincere una diffidenza fin troppo motivata.

Se la Germania sbaglia a pensare solo ai conti, ben più sbagliamo noi, per cui i conti...non contano. Dobbiamo iniziare a pensarci, e a parlarne, però senza slogan facili. Servirà un nuovo Patto, con regole contabili sensate alla luce della realtà in evoluzione, fondate sulla realistica percezione del ruolo non solo economico, anche politico, della Ue, e al suo cuore, dell’Eurozona. Serve anche – dice bene Schäuble – chi ne sorvegli l’attuazione, ma su tali basi vanno concordate e assunte, con urgenza, decisioni politiche; la loro premessa deve essere la comprensione delle ragioni altrui, alimento della fiducia reciproca.

Non possiamo continuare tutti a leggere la realtà con lenti superate. Bisognerebbe riadattare così una nota sentenza, davvero lapidaria: «Chi è senza peccato, si sforzi di ricordare meglio».

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