Le ragioni politiche sottostanti alla proposta avanzata da Goffredo Bettini di eleggere Mario Draghi alla presidenza della Repubblica senza tentennamenti sono chiare ed esplicite: ristabilire prima possibile la dinamica bipolare consolidando una alleanza sempre più stretta tra un Pd in mano alla sinistra “laburista” del partito (che dopo il ritiro di Nicola Zingaretti ha scelto Enrico Letta come suo speaker), gli ex-Pd fuoriusciti a sinistra (Bersani, Schlein, Speranza) e i Cinque stelle.

Bettini non è stato sempre, come invece altri della stessa area, in conflitto con le componenti variamente (e assai grossolanamente) definibili liberal o riformiste, anzi ne è stato un leale alleato. Potrebbe essere arrivato a questa conclusione dopo aver preso atto che quelli ormai fuori dal Pd (Calenda, Renzi) sono troppo rissosi, quelli rimasti dentro (Base riformista) troppo deboli, comunque difficili da integrare tra di loro e non coinvolgibili, anche per loro scelta, nello schema Pd(s)-M5s.

Un’alleanza impossibile?

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D’altro canto, è ovvio che quello Pd(s)-M5s è uno schema difensivo. A oggi, serve a perdere contro il centrodestra alle prossime elezioni dando a vedere che esiste una coalizione alternativa, mantenendo al tempo stesso il controllo sulle liste per il parlamento in capo alle componenti post-zingarettiane. E Bettini incarna certamente l’anima più dialogante e inclusiva, non motivata da avidità.

A Bologna, per dire, gli interpreti di questo schema, invece di usare le primarie per consumare il conflitto nelle urne a colpi di voti e ricucire il giorno dopo, come aveva detto Romano Prodi con una frase ingiustamente sovraccaricata di significati bellicosi, le hanno prese a pretesto per epurare i dirigenti locali di Base riformista dalle liste del consiglio comunale, dando una plastica rappresentazione di cosa potrebbe capitare nella formazione delle liste per Camera e Senato. Ma Bologna è rimasta una eccezione molto confortevole per il centrosinistra anche in Emilia-Romagna. A livello nazionale, l’unica possibilità per competere con il centrodestra sta nel tenere insieme tutte e tre le componenti dell’elettorato: la sinistra (dentro e fuori del Pd), i liberal-riformisti (dentro e fuori del Pd), i Cinque stelle. La prima reazione è pensare che sia impossibile. La seconda che per il centrosinistra le alternative sono, nell’ordine: straperdere contro Salvini e Meloni, oppure tornare dopo elezioni non decisive e senza la giustificazione della crisi pandemica a un governo come l’attuale, con il “Pd laburista” alleato della Lega.

La terza, infine, che si tratta di una prospettiva impossibile solo se i protagonisti continuano a essere quelli di oggi, separati da vecchi rancori personali, da ambizioni spropositate, e poco inclini ad avere uno sguardo lungo. D’altro canto, quali sono le ragioni di chi critica Bettini per la sua proposta riguardo all’elezione di Draghi alla presidenza della Repubblica? Le loro ragioni politiche sono solide, perché la strategia Pd(s)-M5s ha tanto respiro quanto la svolta old Labour di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna. Ma per prendere tempo, non avendo una strada alternativa disponibile, giocano con le istituzioni pensando di piegarle a interessi di brevissimo termine.

Se, come era stato detto al momento della formazione del governo Conte II, uno degli obiettivi vitali era “mettere in sicurezza la presidenza della Repubblica”, arrivare al 2022 per poterla affidare a una personalità sopra le parti, non ci sarebbe occasione migliore di questa. L’elezione a larghissima maggioranza della persona che gode della più alta reputazione nel mondo, oltre a determinazione e capacità, dimostrate più volte, di agire con fermezza a tutela dell’interesse nazionale senza farsi strattonare da nessuno dei soggetti politici in campo. Non si capisce in quale altro ruolo Draghi potrebbe mettere a servizio del Paese il suo peso più a lungo e con maggiore efficacia. Quindi, Bettini ha ragione sotto il profilo istituzionale, anche se lo fa per proporre una strategia politica di corto respiro. I liberal non sono ancora in condizione di proporre una strategia politica più lungimirante e sono indotti a ripiegare su una tattica che torce le istituzioni a interessi di breve termine: la rielezione di Sergio Mattarella alla più alta carica dello stato per un “tempo supplementare”, con l’unico obiettivo di evitare il rischio di uno scioglimento anticipato di un anno delle camere. A oggi, l’esito più probabile è che prevalgano sia la miopia istituzionale sia quella politica, con il “congresso” Pd forzosamente rinviato tanto più in là nel tempo quanto più dovesse apparire plausibile l’emergere di una leadership competitiva capace di mettere in moto una dinamica diversa.

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