Due giorni dopo la divisione che si è prodotta nella delegazione Pd all’Europarlamento, la segretaria Elly Schlein ha raccolto consensi e incoraggiamenti nella piazza per l’Europa promossa da Michele Serra. Non sorprende. Intendiamoci, ciò non esonera il partito da un chiarimento politico interno, sulla politica estera e, più in genere, sul profilo identitario del Pd. Decideranno come, ma la cosa s’ha da fare.

Non è da escludere tuttavia che, a dispetto delle apparenze, diciamo così, l’incidente possa semmai rafforzare Schlein. Non solo in ragione della nota, genetica discontinuità inscritta nel mandato conferitole dal popolo delle primarie che ne aveva premiato l’alterità rispetto alla nomenclatura, ma anche perché l’episodio trasmette invece l’impressione di un “già visto” che ha a che fare con la specialità della casa ovvero una contesa tra le correnti e la caccia al leader.

Forzature e drammatizzazioni

Si può convenire che quel voto fosse oggettivamente discutibile e controverso, ma si è avuta l’impressione di un di più di forzatura e di drammatizzazione e che esse siano state cercate da chi si è espresso in dissenso dalla linea proposta dalla leader.

È vistoso lo scarto tra il giudizio di merito sul Piano von der Leyen, di cui tutti dentro il Pd hanno rimarcato criticità e limiti (a cominciare da Lorenzo Guerini), e l’enfasi della quale si è voluto espressamente caricare il voto in dissenso. Facendo la caricatura della posizione della segretaria, favorevole alla difesa comune europea, ma critica su un Piano che è poco più che un titolo e un annuncio e decisamente ambiguo sul rapporto tra difesa Ue e difese nazionali.

Nel mentre la Germania stanzia per la sua 500 miliardi. Non ci si è limitati a dissensi circoscritti a singoli, ma espressione di una componente organizzata, vedi caso coincidente con la minoranza “congressuale”. Può essere che vi siano stati difetti nella gestione di quel voto ma, di nuovo, suona stonato e divisivo un dissenso seguito a un voto unanime in direzione Pd sulla linea anticipata dalla segretaria. Vero è che la maggior parte dei suoi membri di minoranza era uscita.

È tuttavia curioso che chi addirittura non ha partecipato al voto in direzione poi si accanisca contro l’astensione nell’Europarlamento, bollata come ignavia, che Schlein ha suggerito quale punto di caduta proprio per fare un passo nella direzione di chi era orientato diversamente.

Elettori e dirigenti

Elettori e militanti del Pd sono sensibili al valore dell’unità del partito, più di quanto lo siano i suoi gruppi dirigenti. Fu così anche al tempo del Pd a guida renziana, persino da parte di vecchi compagni comunisti.

Matteo Renzi era a tutti gli effetti “diverso” da loro ma, una volta eletto, era pur sempre il segretario. Nel mentre si votava in dissenso dalla linea del partito (su materia politica, non etica), si stressava come cogente il vincolo all’orientamento dominante favorevole della famiglia socialista e democratica europea. Argomento di rilievo, ma non risolutivo.

Tacendo alcuni elementi: la circostanza che i gruppi politici europei sono contenitori vasti, plurali, inclusivi (si vedano i Conservatori e riformisti cui aderisce FdI di Giorgia Meloni che si disarticolarono addirittura nel voto di fiducia al secondo mandato di Ursula); la peculiarità da sempre rivendicata dal Pd (in lunghi anni, da noi, non si è mai assegnato un tale rilievo identitario a quell’appartenenza!); la condizione non esattamente brillante dei partiti socialisti fratelli che, come ha osservato qui Sergio Labate, versano in una crisi ideologica e politica.

Ripeto: mentre si votava in dissenso, si lamentava un difetto di "cultura di partito”, una deriva personalistica della leadership e, in positivo, si levava la richiesta, essa giusta, di un serrato confronto, della fine dell’unanimismo, di un congresso suggellato da un voto. Ci sta.

L’improba fatica unitaria

È tuttavia difficile non osservare che la maggior parte di chi ha dissentito – non è una colpa, ma un fatto – abbia partecipato e condiviso strettamente la stagione renziana del Pd. Si converrà: connotata da una interpretazione personalistica quanto altre mai della leadership. Quando raramente si convocavano gli organi statutari. Al punto che si coniò l’acronimo PdR, Partito di Renzi.

Ai tanti media e opinionisti (non solo di destra) che hanno inondato di critiche Schlein per la gestione di un dossier complesso e difficile merita segnalare – taluni lo sanno benissimo e proprio per questo si accaniscono – che su di lei e sul Pd, più che su altri, incombe il dovere della improba fatica unitaria («testarda», come lei ama dire): unità del Pd, unità del campo largo, unità del popolo vasto e plurale raccolto nella piazza per l’Europa. Non è poco.

Chi si rassegna all’idea della impossibilità di fare unità tra le forze di opposizione – e quasi se ne compiace – rinuncia tout court ad approntare un’alternativa al governo più a destra della nostra Repubblica. Traguardando al domani di governo e Quirinale la logica che, più o meno consapevolmente, ispira chi dà per sicuramente impossibile tale unità, si arriva a un solo esito alternativo possibile alla “eternizzazione” di Meloni: un equilibrio imperniato su un asse Fdi-Pd. Qualcuno ha cominciato a parlarne. Fantapolitica?

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