Il lavoro non è tutto nella vita, ma è quasi tutto nella crescita di un paese: la grande spinta alla crescita degli Stati Uniti fino agli anni Ottanta è stata dovuta più all’aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro che a qualunque altro provvedimento di politica economica. Questo per dire che in Italia dovremmo discutere ogni giorno di come aumentare la partecipazione al mercato del lavoro, invece investiamo tempo e miliardi di euro di risorse pubbliche per ridurla, come dimostra l’attuale dibattito sulle pensioni. 

Per colpa dei rapporti di forza all’interno del primo governo Conte, quota 100 viene spesso discussa assieme al reddito di cittadinanza. La Lega ha ottenuto la controriforma delle pensioni, i Cinque stelle il sussidio ai poveri. Eppure non dovrebbero stare sullo stesso piano, perché il reddito di cittadinanza è una misura redistributiva a vantaggio di 1,5 milioni di famiglie (3,5 milioni di individui), mentre quota 100 ha riguardato una ristrettissima minoranza.

Come ha ricordato il rapporto annuale dell’Inps, quota 100 ha permesso il pensionamento anticipato di 180.000 uomini e 73.000 donne nel biennio 2019-2020, mentre la formula Opzione Donna ha consentito l’uscita anticipata dal lavoro ad altre 35.000. I beneficiari avranno sicuramente avuto voglia di stare con i nipotini, ma non erano esattamente tra i più bisognosi.

Un fallimento per tutti

L’Inps osserva infatti che si tratta soprattutto di «soggetti con redditi medio-alti» e, relativamente, più dipendenti del settore pubblico che di quello privato. Con il risultato – prevedibile e previsto – che non sono stati assunti giovani al loro posto, quindi l’impatto sul mercato del lavoro è stato negativo. Il costo cumulato (fino al 2028) di quota 100 è però stato ingente, circa 30 miliardi di euro.

Quota 100 non è stato soltanto un fallimento dal punto di vista dei conti pubblici e degli interessi del paese. E’ stato anche un provvedimento snobbato dai potenziali beneficiari: quei 30 miliardi, dovevano essere molti di più, oltre 46, ma tanti che potevano andare in pensione con quota 100 hanno preferito continuare a lavorare.

Nel 2020, osserva l’ex dirigente Inps Massimo Antichi in un articolo su Lavoce.info, i 73.396 aderenti a quota 100 rappresentavano solo il 22 per cento degli aventi diritto. Ma se consideriamo la platea degli interessati dai requisiti di pensionamento oggetto della riforma, cioè tutti i lavoratori tra i 62 e i 67 anni, quelli che hanno usato quota 100 sono soltanto il 5,2 per cento. Quindi abbiamo speso 30 miliardi per una piccolissima minoranza.

L’unica utilità di questo sperpero, come osserva Antichi, è aver capito che in generale i lavoratori non sono interessati ad andare in pensione prima se questo comporta un taglio significativo dell’assegno che riceveranno.

La combinazione dei 62 anni di età e 38 di contributi per molti avrebbe comportato una decurtazione della pensione tra il 10 e il 15 per cento.  Molti hanno preferito così continuare a lavorare. La morale è chiara: quota 100 è stata snobbata, perché quello che interessa ai pensionandi – e ai loro sponsor – non è uscire più in fretta dal mercato del lavoro, ma farlo a spese della fiscalità generale, dunque di chi ancora è attivo e versa contributi e di chi si appresta a farlo.

Chiaro quindi che ogni contro-riforma delle pensioni dovrebbe allarmare sia chi ha a cuore la tenuta dei conti, ma soprattutto chi pensa che la politica economica debba ridurre le disuguaglianze invece di generarne di sempre nuove.

Anche l’adeguamento dell’età pensionabile all’aumento della speranza di vita è stato bloccato fino al 2025, un’altra ingiustizia motivata dalla scelta di tutelare l’interesse dei pensionandi a spese di tutti gli altri.

Si possono cercare molte spiegazioni per queste scelte di politica economica ingiustificabili con qualunque parametro razionale. La più ovvia è che i pensionandi che vogliono smettere di lavorare senza perdere soldi sono più motivati e organizzati dei giovani che dovranno sprecare i loro contributi per finanziare il riposo di persone ancora attive e vitali.

Ma forse qualcosa di più profondo e inconscio, che accomuna le scelte sulle pensioni a quelle in tanti altri campi – dalla transizione ecologica alla fiscalità sugli immobili – e cioè il rifiuto della generazione dei baby boomer ad ammettere che hanno costruito una società ingiusta, che ha come priorità di tutelare il benessere di vecchi che neanche accettano di esserlo. E che scaricano sui marginali, giovani, immigrati e donne, la strenua difesa di uno stile di vita che si è rivelato insostenibile.

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