Tra le tante straordinarie esperienze di Mario Draghi, due non sono state ricordate: gli anni da Direttore Esecutivo alla Banca mondiale a Washington; e la presidenza della Commissione che ha redatto il Testo Unico della Finanza.

La Banca mondiale finanzia progetti di investimento che promuovono la crescita dei paesi in via di sviluppo attraverso l’emissione di obbligazioni collocate sui mercati internazionali: investimenti che generano debito “buono” (i titoli World Bank sono tripla A) e che sottolineano il ruolo fondamentale del mercato finanziario, complementare al settore pubblico che fornisce il capitale alla Banca. Un modello per l’utilizzo dei fondi del Next Generation Eu (Ngeu).

Il nome di Draghi è spesso associato alla stagione delle privatizzazioni, ma ci si dimentica il Testo Unico della Finanza, predisposto sotto la sua guida, e ricordato con il suo nome.

Le privatizzazioni non dovevano solo servire a ridurre il debito pubblico ma anche a sviluppare un mercato dei capitali allora asfittico, in mano a speculatori che consideravano i risparmiatori “parco buoi”.

Le privatizzazioni dovevano promuovere la crescita degli intermediari italiani e incoraggiare il risparmiatore a investire in azioni, ampliando le opportunità di investimento e la liquidità del mercato. Ma ci volevano nuove regole che tutelassero il risparmio, imponendo trasparenza alle società quotate e impedendo manipolazioni e conflitti di interesse. Per questo Draghi promosse il Testo Unico, che anticipò quella che poi sarebbe diventata la regolamentazione prevalente in Europa.

L’Italia dovrà utilizzare i fondi Ngeu per fare debito “buono”, cioè finanziare investimenti, non spesa corrente. Non basta però: la “bontà” del debito dipende anche dal suo moltiplicatore (100 euro di fondi Ngeu devono generare un effetto moltiplicato sul Pil), e da quanto a lungo permane l’effetto moltiplicativo, ovvero il suo impatto sulla produttività.

Il moltiplicatore dipende da quali investimenti si finanziano, ma anche dalla capacità che questi agiscano come volano per l’iniziativa privata, che a sua volta dipende dall’efficienza del mercato finanziario.

Il curriculum di Draghi appare quindi come una conferma che non c’è crescita duratura senza un mercato capace di mobilitare i capitali privati e indirizzarli verso gli utilizzi più produttivi.

Su questo tema, dobbiamo fare ancora molto. Banche e intermediari dovrebbero essere spinti a gestire il risparmio delle famiglie più con l’obiettivo del rendimento che con quello della massimizzazione delle commissioni.

Regolamentazione, pratiche e modelli organizzativi desueti fanno sì che gli investitori istituzionali italiani (assicurazioni, enti non profit, casse previdenziali, fondi pensione) abbiano ancora una scarsa propensione al capitale di rischio.

La prospettiva che la crisi lasci una scia di società zombie e crediti non più esigibili dovrebbe suggerire miglioramenti nelle procedure fallimentari e la creazione di un vero mercato delle sofferenze, piuttosto che pensare di parcheggiarle in un’azienda pubblica (la Amco).

Va infine evitato che la parte del leone delle risorse Ngeu finisca alle grandi società a partecipazione statale, spiazzando il privato, quando invece potrebbero facilmente raccogliere fondi sul mercato in virtù del flusso stabile di ricavi e margini elevati spesso garantiti della regolamentazione.

Sono riforme a costo zero, ma che aiutano a fare debito “buono”.

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