Le storie di violenze di gruppo organizzate da agenti della polizia penitenziaria contro detenuti inermi si ripetono senza tempo secondo schemi collaudati. La solidarietà di alcune forze politiche, quella di alcune sigle sindacali e le coperture delle amministrazioni di competenza ne garantiscono una sostanziale impunità. Le gravi responsabilità vengono via via sfumate dal decorso del tempo, perdendosi nell’oblio e creando un terreno fertile per depistaggi e insabbiamenti.

Le vittime dei cosiddetti abusi delle forze dell’ordine sono lasciate sole. Lo stato quasi mai è al loro fianco per esigere verità e giustizia. Sulle loro famiglie grava il peso di questa civile istanza. Ma i detenuti sono spesso senza famiglie, oppure quando le hanno non sono in grado di sopportarlo. Questa violenza è intollerabile. Non possiamo, tuttavia, nasconderci come di fatto vengano tranquillamente accettati dal cosiddetto comune sentire dell’opinione pubblica.

Discariche sociali

È l’efficace propaganda politica cinica e furba che concepisce le carceri come discariche sociali dove buttare le vite degli ultimi: coloro che, sì, hanno commesso reati ma ai quali viene negata ogni possibilità di rieducazione e riscatto. La pena che è solo sanzione e afflizione è vendetta. Non è così prevista dalla nostra Costituzione. «Se la Costituzione fosse applicata alla lettera, questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni, è fuori legge. Questo carcere con la Costituzione non ha nulla a che vedere».

Si tratta del carcere di Prato e a parlare era un brigadiere della polizia penitenziaria che rispondeva al detenuto Rachid Assarag. Rachid era finito dentro nel 2009 per una condanna definitiva per tentata violenza sessuale. Fin da subito era stato oggetto di aggressioni, maltrattamenti e pestaggi. Laddove reclamava il diritto sacrosanto di scontare la sua giusta pena nel rispetto della Costituzione questa è stata la risposta. Rachid, quando ha visto che le denuncie sugli abusi subiti si arenavano, si è procurato un registratore e ha documentato ogni momento della sua vita da detenuto.

Da un carcere all’altro le sue registrazioni hanno rivelato uno spaccato spietato e desolante della sua vita in cella. Spedizioni punitive, pestaggi, abusi e torture. Rachid ha registrato tutto e tutti: agenti, medici, infermieri e psicologi, tutti compartecipi di un sistema omertoso fatto di paure e connivenze. È stato ridotto per tanto tempo su una sedia rotelle e ha perso l’uso di un occhio. Quando i Cinque Stelle si occupavano ancora di diritti umani avevano presentato un’interpellanza urgente con la quale si chiedeva conto al ministero della Giustizia di tutti questi gravi fatti.

Tra i firmatari, dopo il primo, Vittorio Ferraresi, anche un certo Alfonso Bonafede, oggi a capo del dicastero di Grazia e giustizia. A rispondere fu Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, che riferì di un’ispezione ministeriale, di cui non si seppe più nulla.

Nessuna tutela

Un’inchiesta amministrativa era stata fatta dal Dipartimento della amministrazione penitenziaria anche sul decesso di Stefano Cucchi, che ieri avrebbe compiuto 42 anni. «Responsabilità pubbliche per la mancata assistenza», «carenze dei servizi sociali interni ed esterni». Questo si legge nella relazione scritta sul caso Cucchi. Dove si legge anche che «la morte di Cucchi condensa in sé una sommatoria di insensibilità e di disumanità, che merita ogni intervento ad hoc volto a ristabilire, anche per il futuro, regole di verità e giustizia». Non solo.

Riconosce che «il nostro sistema carcerario» si è «trasformato da luogo di rieducazione per condannati a luogo di transito per arrestati, spesso portatori di disagi e bisogni più che di autentica capacità criminale». La relazione finale, a firma del magistrato Sebastiano Ardita, investe la direzione generale del personale per l’avvio dei procedimenti perché «il quadro che emerge è quello di un’incredibile e continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti, assenza di comprensione e disagio, mancata assistenza ai bisogni, assenza del comune senso di umanità».

Questa relazione, prescindendo dalle responsabilità penali che hanno portato Stefano in carcere nelle condizioni tristemente note, scatta una fotografia impietosa del trattamento riservato al ragazzo nelle strutture carcerarie.

Ma a Santa Maria Capua Vetere all’indifferenza si è affiancata la violenza bruta e organizzata. Cosa aspettiamo a farci carico del problema che è oramai sotto gli occhi di tutti? Certo, non è un tema che porta consensi e voti. Più facile assecondare la deriva populista che sta inquinando l’amministrazione della giustizia. Quella del tifo per i buoni e dell’odio per i cattivi.

Un apprezzamento speciale lo dobbiamo ai magistrati che si sono impegnati in questa vicenda. Di loro abbiamo tanto bisogno come di una dialettica processuale sana così come era stata a suo tempo concepita: gli avvocati esercitano la propria funzione con pieno diritto e, in egual modo, i magistrati. Senza patenti di buoni o cattivi. Nessuno è portatore di verità divina. E voi, forze di governo, recuperate la sensibilità di un tempo per i diritti umani, su di essi non si possono fare compromessi.

© Riproduzione riservata