In un recente e documentatissmo libro di Bruno Di Stefano (Le più potenti famiglie della camorra, Newton Compton editori) si illustra per ben sei pagine il controllo sulla sanità delle famiglie Contini–Bosti–Mallardo, partendo dal caso dell’ospedale S. Giovanni Bosco di Napoli.

Il clan ha utilizzato la struttura sanitaria per nascondere le armi, per summit tra boss latitanti, per assumere infermieri, portantini, autisti, addetti alle pulizie e barellieri; ha impiegato i suoi uomini per tenere sotto controllo le liste dei ricoveri e delle operazioni chirurgiche; ha condizionato e deciso le relazioni sindacali e i rapporti con gli uffici amministrativi; ha inoltre stretto legami con medici compiacenti che hanno firmato certificati di false malattie per frodare le assicurazioni, o referti falsi per occultare ferite da armi da fuoco o per procurare alibi ai membri del clan.

Anche il bar interno e il ristorante erano gestiti da affiliati, così come l’impresa di pulizia, di lavanderia e di varie forniture. Il procuratore capo Giovanni Melillo ha definito l’ospedale una sorta di «sede sociale del clan», quasi una proprietà privata del cartello camorristico più forte della città e della provincia. E ha aggiunto: «È documentato il controllo mafioso al di là di ogni capacità di immaginazione».

In Italia, in base alla legge sullo scioglimento per infiltrazione mafiosa degli enti locali, sono state commissariate già sei Asl, quattro in Calabria e due in Campania. In nessuno di questi casi si era registrato qualcosa di paragonabile, un controllo così totale della criminalità pari a quello descritto negli atti della magistratura per l’ospedale S. Giovanni Bosco: qui non si parla di “infiltrazione” ma di privatizzazione criminale di un bene pubblico. Eppure, nonostante il parere dei tre membri della commissione di accesso, i quali hanno confermato quanto è scritto negli atti dei magistrati, al ministero dell’Interno non si decide ancora, come ha segnalato su questo giornale Nello Trocchia in un suo articolo.

Tutti in silenzio

Ma c’è un altro episodio, di diversa natura, che ci convince che l’impressione di impunità politica e amministrativa per la Campania di De Luca non sia campata in aria. Mi riferisco al fatto che il presidente ha nominato come suo segretario particolare un condannato a 18 mesi per corruzione e nessuno del Pd, nessuno del partito di Speranza (e anche dei Cinque stelle in verità) ha finora stigmatizzato l’accaduto.

Pensiamo per un attimo a cosa sarebbe stato detto se una scelta simile l’avessero fatta Fontana, Zaia o Toti. Oppure se l’avesse fatta il sindaco di Napoli De Magistris. Sarebbero tutti insorti, confermando che di questi tempi il giudizio morale si applica ai nemici e si condona agli amici: la doppia morale contrapposta alla questione morale di Berlinguer. Perché, dunque, tanta tolleranza? Perché gli si concede di riempire le liste con imputati per reati gravi, di offendere tutti i membri del governo, di sbeffeggiare o di riversare contumelie contro chiunque lo contrasti, di imporre il silenzio stampa a tutti i dipendenti delle Asl? E perché ora gli si permette senza neanche una critica di assumere da condannato un segretario che cinque anni fa aveva cacciato da imputato?

Forse non si prende posizione perché si teme di finire sbeffeggiati in una delle sue sceneggiate televisive? Se è così De Luca avrebbe sperimentato positivamente (per lui) il valore dissuasivo dell’oltraggio. La sopportazione dei suoi interlocutori offesi si confonderebbe con la vigliaccheria e la volgarità istituzionale verrebbe legittimata come una forma possibile di governo. O forse più semplicemente il Pd e il governo centrale si starebbero conformando a una sorta di “regionalismo feudale”, in base al quale ciascun presidente è signore del territorio in cui è stato eletto e a lui è riservata ogni libertà di comportamento e di espressione, al di là a volte delle leggi dello stato, delle regole di partito e della tradizionale attenzione ai comportamenti morali degli iscritti che un tempo fu del Pci.

Che questa impressione abbia qualche elemento a sostegno è dato dal silenzio che in Campania e a Roma anche i Cinque stelle riservano al caso. Se non si è riusciti finora a trasferire nelle elezioni regionali l’alleanza di governo nazionale, almeno si adotta un medesimo comportamento: tacere per poter convivere con quelli che un tempo D’Alema apostrofava come cacicchi e che ora sono preziosi alleati.

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