Esportare la democrazia, per chi può farlo, non é solo una facoltà ma un dovere morale. Leggete le testimonianze delle donne da Kabul, guardate i video delle corse in aeroporto e pensate a quanto deve essere disperato chi si appena a un aereo sapendo che morirà cadendo e chiedetevi se il relativismo culturale, pervaso di razzismo appena mascherato, é una opzione. E infatti l’idea della democrazia da esportare matura in ambienti progressisti, che poi trovano nella vocazione militarista della destra la sponda per passare dall’auspicio all’azione. 

Esportare una cultura di diritti, dunque, si può e si deve. Ogni ambizioso slancio progressista - diciamo pure di sinistra - é universalista: dal pacifismo alla critica alla globalizzazione di vent’anni fa all’ambientalismo di oggi.

E non é vero che si tratti di una missione velleitaria o destinata al fallimento: l’Unione europea ha esportato democrazia e diritti ai suoi confini per un quindicennio cruciale, dopo la caduta dell’Urss. 

I problemi originano quando tale esportazione, pacifica ed economica, é troppo cauta o incerta, vedi i casi di Polonia e Ungheria (o i tentativi incompiuti in Ucraina e, soprattutto, Turchia). 

Talvolta il sostegno convinto ai nostri valori può anche richiedere il ricorso allo strumento militare: andatelo a dire ai cittadini di Srebrenica che si era ai fidati della protezione Onu che l’uso della forza é sempre sbagliato, o ai kosovari che non sono stati massacrati soltanto grazie alle forze internazionali. O ai curdi che chiedevano sostegno mentre combattevano, per conto nostro, con i tagliagole dell’Isis in Siria e Iraq.

Tutto questo per dire che certe contrapposizioni manichee vanno bene per le polemiche via Twitter, ma sono pericolose nel mondo reale. La tragedia dell’Afghanistan non ha radici in un’idea sbagliata, l’universalità dei diritti umani, ma nella sua applicazione. 

L’intervento militare di vent’anni fa teneva insieme desideri di vendetta - per dimostrare che l’Occidente sapeva reagire all’attacco di Al Quaida - e velleità di ridisegnare il Medio Oriente. Tutto questo é fallito, ma come la bancarotta di una azienda non implica che il capitalismo sia al capolinea, così una campagna militare gestita al peggio non può spingere alla rassegnazione sul dovere dell’Occidente di diffondere valori e diritti.

Possiamo riconoscerci inefficaci oggi nel proteggere le donne afghane dalla repressione, ma non dobbiamo considerare quella repressione normale e inevitabile. 

In questi vent’anni abbiamo sviluppato molti strumenti per esportare la democrazia senza le bombe: i trattati commerciali, le sanzioni a singoli individui in paesi stranieri, l’esclusione dai circuiti finanziari globali, la pressione di una opinione pubblica ora davvero planetaria.

Le bombe e l’occupazione hanno fallito, come molti avevano avvertito, a cominciare da Gino Strada, dunque é il momento di combattere con altri strumenti. Ma si tratta di una campagna che continua con altre, si spera più efficaci, armi. Non di una resa di fronte alla violenza oscurantista, con buona pace di Giuseppe Conte e della sua fretta di accettare subito l’Afghanistan talebano come nuova normalità.


 

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