Persa la leadership nella tecnologia a favore di Usa e Cina, l’Europa ha puntato sulla transizione verde per sostenere la crescita e conquistare un primato nel mondo, sfruttando la maggiore sensibilità dell’opinione pubblica e dei governi locali sui temi ambientali. E con il Next Generation Eu ha mobilitato le risorse adeguate allo scopo.

«L’ America è passata da essere un paese senza speranza per l’ambiente a leader nella transizione verde nel giro di poche settimane grazie all’entrata in vigore della legge Inflation Reduction Act, una serie di provvedimenti per favorire la transizione ambientale e incentivare gli investimenti privati nelle tecnologie verdi».

Il virgolettato non è la traduzione di un trionfale comunicato della Casa Bianca: è stato scritto da Nel, la società norvegese leader nelle tecnologie per la produzione di idrogeno, che vede negli Stati Uniti, non nell’Europa, il suo futuro mercato chiave.

Al netto della retorica aziendalista, è il segnale una svolta particolarmente degna di nota, anche perché avviene in un paese che sono il primo produttore di energia fossile.

La svolta ambientale americana è motivata dai rischi geopolitici emersi con la guerra in Ucraina e le minacce cinesi a Taiwan, che hanno cambiato la dinamica della globalizzazione. In altre parole, mentre in Europa la guerra in Ucraina e il ricatto energetico della Russia sono visti come un rischio mortale per la transizione ambientale e la crescita economica, gli Stati Uniti usano la transizione ambientale come strumento per mettersi al riparo dai rischi geopolitici e sostenere la crescita. Una strategia che sembra vincente rispetto a quella dell’Europa.

Il ritardo europeo

La Germania, che è stata l’ispiratrice della politica ambientale di diversi paesi europei, in primis l’Italia, ha puntato tutto sull’aumento della produzione e distribuzione di energie rinnovabili, sfruttando i vantaggi della globalizzazione per importare componenti, tecnologia e materiali necessari per produrla al minor costo possibile; e sul taglio delle fonti domestiche (carbone e nucleare), sostituiti prevalentemente dal gas russo.

L’Europa continua a preferire le importazioni (Quatar, Algeria, Lng Usa) allo sviluppo di risorse e produzioni nazionali. Come mantiene la politica di acquisire al minor costo possibile quanto necessario per la produzione di energia rinnovabile e per la transizione energetica: per esempio, l’85 per cento del litio, indispensabile per batterie e accumulatori, viene da Australia e America Latina, ma la Cina controlla il 60 per cento dei processi chimici per il trattamento del minerale, il 75 per cento delle celle a combustibile e il 60 per cento delle componenti per batterie.

Percentuali simili valgono per il cobalto e la produzione di componenti per l’elettronica. Predominio cinese per tutte le fasi della produzione di pannelli solari; senza dimenticare che i semiconduttori, centrali anche nella transizione energetica, sono per lo più prodotti a Taiwan, che la Cina vorrebbe inglobare. E la competizione cinese comincia a mettere in crisi anche i produttori europei di pale eoliche, unico segmento in cui l’Europa eccelle.

La Cina ha il vantaggio di essere partita per prima; di aver raggiunto forti economie di scala per abbattere i costi e sostenere gli investimenti in ricerca e sviluppo; e di poter fare affidamento su energia elettrica a basso costo (il carbone, paradossalmente) e un costo del lavoro contenuto.

In un mondo ideale, l’approccio tedesco è economicamente corretto: produco e compro quello che mi serve dove costa di meno, e mi concentro dove ho un vantaggio comparato.

Ma Ucraina e Taiwan hanno stravolto i vantaggi della globalizzazione. Inoltre, tale approccio richiede una grande flessibilità del mercato del lavoro, per spostare risorse fra settori, in funzione dei vantaggi comparati. Che l’Europa non ha.

Il passaggio all’auto elettrica, per esempio, riduce l’utilizzo della capacità produttiva nei motori tradizionali e nelle componenti, creando quindi disoccupazione che difficilmente può essere riassorbita altrove visto che mancano le competenze, impianti, materiali e componenti cruciali per il nuovo settore.

Il sostegno pubblico all’americana

L’America ha ribaltato il principio: lo Stato lancia un massiccio programma finanziario per “riportare a casa” la filiera produttiva di rinnovabili, auto elettriche e semiconduttori: dall’attività estrattiva allo sviluppo della tecnologia; dalla manifattura di componenti alla produzione di rinnovabili.

Le risorse pubbliche sono usate per abbattere i costi di produzione e aumentare la domanda di rinnovabili, per far sì che le imprese del settore raggiungano rapidamente le economie di scala indispensabili per la redditività nel lungo periodo.

Così facendo, si riducono i rischi geopolitici e si incentivano investimenti e occupazione negli Stati Uniti, dando un impulso alla produttività.

È vero che pagano un maggior costo nella transizione rispetto all’Europa (lavoro, manufatti e semiconduttori costano più in America che in Cina), ma in questo modo costruiscono un’industria potenzialmente competitiva nel mondo e mettono il Paese al riparo dai rischi geopolitici.

Gli standard ambientali

Altra differenza con l’approccio Europeo sono gli standard ambientali nella transizione. Negli Usa sono disposti ad abbassarli, pur di raggiungere più rapidamente gli obiettivi di lungo periodo. Per raggiungere il primato nella produzione di idrogeno la legge incentiva per esempio anche il carbon capture (si usa il gas naturale catturando e immagazzinando le emissioni prodotte).

L’Europa, al contrario, incentiva solo l’idrogeno da rinnovabili ma, in questo modo, le aziende tecnologiche europee, come Nel, puntano sugli Usa per espandersi. Gli Usa incentivano il nucleare; l’Europa (tranne la Francia) lo bandisce.

Gli Usa abbassano gli standard ambientali per lo sviluppo delle risorse minerarie necessarie alla transizione ambientale mentre in Europa, pur di non aprire nuove miniere, siamo disposti a importarle, anche da paesi dove i diritti sociali sono calpestati.

Negli Usa hanno abbattuto i tempi per le autorizzazioni ai parchi eolici e solari, mentre da noi sono talmente lunghi da far rischiare l’obsolescenza ai progetti, prima ancora della realizzazione; e gli impianti eolici in attesa di autorizzazione sono otto volte quelli in produzione.

In Italia si preferisce importare il gas da paesi a rischio geopolitico, come Qatar e Algeria, pur di non coltivare i giacimenti nazionali o autorizzare un rigassificatore.

Negli Usa, lo Stato incentiva la domanda con sussidi mirati (agli Stati a maggiore utilizzo di fossili e ai cittadini reddito medio-basso); da noi bonus e incentivi a pioggia.

Come in Silicon Valley

Negli Usa lo Stato lascia l’iniziativa ai privati, ai quali garantisce la redditività degli investimenti con generosi crediti di imposta e conta sul mercato dei capitali per amplificare l’impatto dei fondi pubblici (si stima da 7 a 10 volte); da noi entra direttamente, con il Pnrr, nelle decisioni di quale investimento finanziare; e in Italia assume partecipazioni nelle società percepite come strategiche per il successo della transizione energetica.

L’approccio americano non differisce molto da quello utilizzato a suo tempo per sviluppare Silicon Valley, sostenuto dalla spesa per la Difesa, o lo sfruttamento degli scisti bituminosi (proibito in Europa) per acquisire l’indipendenza dall’Opec per le forniture energetiche e svincolarsi dai rischi geopolitici collegati. Riuscendo in questo modo ad acquisire una posizione dominante nel mondo sia nell’industria tecnologica, che in quella energetica.

Ci aveva visto giusto Winston Churchill: “Puoi sempre contare sugli americani per fare la cosa giusta, dopo che hanno provato tutto il resto”.

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