Non conosco Mauro Berruto, so che nel suo campo è un professionista di grandissimo valore. Ha guidato la nazionale maschile di pallavolo ottenendo risultati straordinari. Nei giorni scorsi Enrico Letta lo ha coinvolto nella nuova segreteria del Pd.

Il giorno seguente ho letto la prima intervista che ha rilasciato nella nuova veste di dirigente politico, quella dove ha dichiarato di non essere iscritto al Partito democratico. Posso supporre che nella scelta abbia pesato l’idea di un partito più inclusivo, capace di coinvolgere mondi e soggetti sinora lontani.

Facendo i debiti distinguo, in anni lontani Giancarlo Pajetta aveva detto di Enrico Berlinguer che si era «iscritto giovanissimo alla direzione del Pci». La battuta indicava come quel leader avesse scalato in modo rapido le gerarchie di un partito dove le carriere seguivano un percorso scandito. Certo, il vecchio partigiano mai avrebbe potuto pensare, «si è iscritto alla segreteria del partito senza averne la tessera».

L’episodio di adesso, però, può farci riflettere sul significato che ha l’adesione, la militanza, in un partito. Per iscriversi a quello di Pajetta i criteri erano rigidi.

L’aspirante veniva introdotto in sezione da due “compagni” a garantire sulle sue referenze. L’essere passati da un tale modello all’elezione del segretario da parte di qualche milione di passanti, senza neppure la garanzia che alle elezioni quelli ti votino, un paio di interrogativi li pone. A partire da cosa abbia impedito di sperimentare una via mediana tra i due estremi.

Oggi la segreteria del Pd ha deciso di avviare la sua nuova stagione con un vademecum che interpella i circoli sui contenuti della relazione svolta da Letta il giorno della nomina.

Lo giudico un segnale positivo, ma il nodo rimane: che significato diamo all’iscriversi e militare in una forza come quella? E quale logica sorregge il “reclutare” nel massimo organismo una figura autorevole che a quel partito neppure ha mai aderito?

È il modo per archiviare logiche e riti della vecchia forma partito, oppure è l’ennesima declinazione del modello “liquido” in voga da qualche anno?

Anche per questo la scelta del bravissimo Berruto è interessante così come appare intrigante il programma che in quella intervista ha illustrato: l’intenzione, anch’essa sacrosanta, di insegnare ai dirigenti del Pd la necessità di “passare la palla”.

Potendo transitare dalla pallavolo al pallone, tempo fa mi aveva colpito la descrizione del calcio totale giocato, tra gli altri, dall’Olanda degli anni Settanta.

Quegli undici fenomeni arancioni avevano sovvertito l’ordine: non più ruoli fissi coi calciatori a presidio di una zona di campo, ma un’abilità generosa dove tutti andavano a coprire le zone lasciate scoperte da un compagno aggredendo gli avversari nel possesso di palla e procurandosi ripartenze fulminanti.

Se ho ben compreso, era una tecnica che chiedeva piedi buoni, tenuta fisica e una solidarietà di squadra indiscussa. Anche se quella nazionale non vinse i mondiali, sconfitta in ultimo da una Germania meno raffinata ma più pragmatica, lasciò dietro a sé un ricordo indelebile.

Allora, tornando a noi, tutto starebbe nel trovare uno alla Cruijff, con un particolare. Che quel genio della palla non lo hanno selezionato una domenica tre milioni di olandesi, ma la gavetta di una formazione capace di fondere il talento in una squadra. Ah, col dettaglio che l’Ajax lo aveva tesserato.

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