Quando Enrico Letta, tra pochi giorni segretario del Pd, è arrivato al governo, nel 2013, c’erano i populisti da una parte e i partiti tradizionali dall’altra, i Cinque stelle avevano appena aperto il parlamento come una scatoletta di tonno e il Partito democratico si era reso ridicolo con lo slogan “smacchiamo il giaguaro” (cioè Silvio Berlusconi, nient’affatto intimorito).

In quell’anno di potere senza acuti Letta si trovò stretto tra Berlusconi in maggioranza, l’assedio dei Cinque stelle e le imboscate nel Pd a opera dell’emergente Matteo Renzi. Il risultato fu un’azione di governo poco entusiasmante: abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, che ha lasciato spazio non all’etica francescana predicata dai Cinque stelle ma al sistema opaco delle fondazioni; abolizione dell’Imu sulla prima casa, come richiesta da Forza Italia; grandi promesse di revisioni della spesa pubblica non mantenute, con Carlo Cottarelli che da commissario è passato a fare l’opinionista.  

L’unico vanto di quella stagione fu l’operazione Mare Nostrum: l’Italia salvava vite umane in mare, con la marina e l’aeronautica militare, prima dell’ipocrita contesa con le Ong e i partner europei. Salvava vite perché era giusto farlo, come ha rivendicato con coraggio Letta in momenti in cui questo non rendeva popolari.

Oggi Enrico Letta si appresta a prendere la guida di un partito, non di un governo, ma il Pd è inserito in un contesto che ricorda quello del 2013. Maggioranza allargata a destra, un’opposizione radicale (Fratelli d’Italia e la parte salviniana della Lega), l’illusoria sensazione di avere la crisi alle spalle, all’epoca quella dell’euro oggi quella del virus.

Letta ha imparato a sue spese che l’arte della mediazione senza avere chiare le priorità lascia vuoti che poi vengono riempiti da chi ha idee più nette e identità più riconoscibili. Letta non è il Joe Biden italiano, perché il Pd non ha al suo interno la vitalità dei Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, manca di entusiasmi movimentisti che i leader centristi possono incanalare nel binario della politica responsabile.

Il Pd è vuoto, senza idee, senza identità, senza militanti, senza classe dirigente, è soltanto un cartello di correnti che ora ha individuato un altro segretario che pensa di poter manipolare. I vari Franceschini, Orlando, Bonaccini riusciranno così a evitare che si affermi una leadership forte prima dell’elezione del capo dello Stato nel 2022, data intorno alla quale si tessono trame di ambizioni e manovre opache da molti mesi.

Letta ha davanti un bivio: può essere il garante del sistema delle correnti, che assicurerà al governo Draghi un Pd pacificato e moderato, oppure può diventare il catalizzatore del cambiamento interno, vero traghettatore oltre la crisi, portando dentro il partito quel tipo di energie giovani che da anni monitora e coltiva con la sua Scuola di politiche.

Il Pd è arrivato a un punto paradossale della sua storia: da segretario Letta può salvarlo soltanto facendo tutto il contrario di quello che vorrebbero i capicorrente che ora lo invocano per riempire il vuoto lasciato da Nicola Zingaretti, un altro che ha sempre pensato più ai tatticismi interni che agli elettori.

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