Matteo Renzi ha da tempo una strana idea della giustizia e finora questo era un problema suo e del partito con più eletti che elettori, Italia viva. Ma dopo il voto in Senato di martedì, quell’idea di giustizia è anche la linea del Partito democratico di Enrico Letta, e allora la questione diventa più seria.

Renzi è ben consapevole della rilevanza di quello che è successo: “Rispetto il dibattito interno del Pd, ma esprimo gratitudine perché ha abbandonato la linea che aveva tenuto in giunta”.

Martedì il Senato ha votato a favore, con 167 sì e 76 no, del conflitto di attribuzione presso la Corte costituzionale per quanto riguarda l’operato dei pm di Firenze che indagano sulla fondazione Open, ex cassaforte del renzismo. Tra i sì, ci sono stati quelli del Partito democratico.

L’inchiesta Open

L’ipotesi di accusa è che alcuni imprenditori abbiano finanziato Open invece che il Partito democratico, di cui Renzi era prima esponente e poi segretario. Poiché Open era una fondazione, non le si applicavano le regole di trasparenza vigenti per i partiti, da qui l’ipotesi accusatoria, tra l’altro, di finanziamento illecito.

Ci penserà un giudice a stabilire se così è, ma non è vero che i magistrati vogliano “definire le forme della politica”, come dice Renzi. E’ chiaro che se ci sono delle regole per finanziare la politica ma poi si trovano sotterfugi per aggirarle, è un problema. Capiremo se anche un reato.

Dal punto di vista politico, l’inchiesta non ha aggiunto molto a quanto già si sapeva: Renzi ha sempre fatto sfilare sul palco della Leopolda i suoi finanziatori, che ben conoscevamo, da Vincenzo Onorato a British American Tobacco, tutti in fila a chiedere norme di favore in cambio dei finanziamenti.

Il grado di dettaglio con cui conosciamo ora appuntamenti, solleciti, reazioni e messaggi non deriva tanto da un’azione particolarmente invasiva nei confronti di Renzi, quanto dal fatto che l’ex presidente della fondazione Open, Alberto Bianchi, per misteriose ragioni conservava traccia scritta ogni singolo dettaglio delle sue interazioni.

Ci sono anche i conti correnti, incluso quello di Renzi, nelle carte dell’inchiesta, molte mail, non tutte direttamente connesse ai finanziamenti, molti scambi anche privati. Si può discutere se questo grado di invasività nell’indagine sia necessario e se si debba allegare tutto, sapendo che ogni minuzia diventerà pubblica. Renzi sostiene di no, che sia addirittura una violazione delle sue prerogative di parlamentare, perché c’è anche parte della sua corrispondenza (acquisita dagli altri indagati).

Altri indagati, invece, sono addirittura sollevati che ci sia tutto ma proprio tutto nelle carte dell’inchiesta, perché sono convinti che così sarà fugata ogni ambiguità sul loro comportamento e sarà più probabile essere archiviati.  

Il golpe di magistrati e giornalisti

Vedremo gli sviluppi dell’inchiesta. Trovarsi sotto questa lente di ingrandimento è spiacevole per tutti, ma la difesa di Renzi è sempre attaccare i magistrati.

Da premier in carica si lamentava di avere il babbo sotto inchiesta per bancarotta (poi è stato archiviato), ora denuncia alla procura competente su Firenze, cioè Genova, i pm che lo indagano con una mossa che neanche Silvio Berlusconi nei suoi momenti più bellicosi aveva adottato.

Con un tocco di stile, Renzi ha ricordato che uno di loro è stato sanzionato per molestie a una collega, a un altro contesta scarsa professionalità sul caso David Rossi, vicende che nulla c’entrano con Open. Questa linea argomentativa che rivela come l’attacco sia personale ai magistrati, più che a qualche aspetto del loro operato giudicato illegittimo.

Altri imputati che non sono politici, come l’imprenditore Marco Carrai, stanno contestando le decisioni nei binari tradizionali, a colpi di ricorsi in Cassazione contro i sequestri disposti dai giudici, e hanno ottenuto anche delle sentenze favorevoli. Ma Renzi ha un’arma in più, la sua poltrona da senatore.

La ritrovata centralità di Italia viva nel caos seguito al voto sul Quirinale, combinata con la naturale pulsione all’immunità degli eletti di ogni colore politico, spinge Renzi a schierare il Senato a sostegno della sua tesi sostanzialmente golpista: i pm stanno cercando di riscrivere le regole della democrazia, dice con qualche citazione a caso di Piero Calamandrei, e dunque vanno fermati dalla Corte costituzionale.

La narrazione berlusconiana

Renzi sposa integralmente la narrazione berlusconiana dei trent’anni di guerra tra la politica e la magistratura e, dal Senato della Repubblica, si lancia negli attacchi alla stampa e ai giornalisti “gazzette delle procure”, giornalisti che lui querela senza remora a ogni parola sgradita.

Ma veramente il Partito democratico di Enrico Letta condivide queste farneticazioni? La risposta è sì, a giudicare dal voto in Senato.

E’ una scelta precisa e impegnativa: Renzi rivendica il suo diritto di lavorare per governi stranieri, come quello dell’Arabia saudita del principe Mohammed bin Salman, di sedere nei board di società russe, di avere rapporti con aziende cinesi, di fatturare centinaia di migliaia di euro e chiede il silenzio della stampa su queste cose, come sulle inchieste che lo riguardano. Solo lui può decidere cosa deve andare o non andare in prima pagina.

Renzi ormai lo conosciamo, ma il Pd di Enrico Letta sembra stesse cercando di costruire un’alternativa alle degenerazioni del renzismo. Invece ha scelto di legittimarle.

PS: Da ex scout, mi sono profondamente vergognato di sentire Matteo Renzi richiamarsi agli ideali dello scoutismo e dell’Agesci per sostenere la sua richiesta di impunità.

Caro Matteo, c’è un limite a tutto: Calamandrei non può protestare, perché è morto, ma non ti permettere di trascinare nella melma in cui è finita la tua esperienza politica anche cose che non ti appartengono.

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