Cosa farà Mario Draghi una volta esaurita la sua esperienza da premier a palazzo Chigi? Per rispondere a questa domanda bisogna chiedersi quale fosse la mission che Mario Draghi si era posto quando ha risposto a febbraio 2021 all’appello del presidente Sergio Mattarella per un incarico di governo di unità nazionale. È stato quello di Draghi un incarico soprattutto di tipo economico o invece di tipo geopolitico? Proviamo ad approfondire e dalla risposta a questo quesito iniziale probabilmente avremo qualche elemento in più di giudizio sul tema.

Il fronte economico

È innegabile che la spinta del presidente del Consiglio Draghi per far ripartire l’Italia abbia fatto cambiare velocità al paese, che potrebbe crescere addirittura di un 6 per cento nel 2021, più di Francia e Germania, mentre lo stesso premier è anche garanzia con i mercati internazionali di tenuta dei conti con un debito pubblico esploso al 159 per cento del Pil, anche a causa degli effetti economici delle pandemia da Covid-19. Grazie ai 192 miliardi di euro del Recovery fund, un accordo che ci lega a Bruxelles con l’esborso rateale di prestiti e trasferimenti a fondo perduto a fronte del varo di riforme strutturali fino ad almeno il 2026, il presidente del Consiglio ha posto gli obiettivi verso i quali il paese si deve muovere in campo economico.

Draghi ha tracciato la via per modificare il modo in cui opera la burocrazia statale, tagliando i tempi della giustizia civile e penale con la riforma Cartabia, semplificando le procedure per gli appalti pubblici e migliorando le normative anti corruzione. Il premier ha inoltre messo in cantiere l’aumento della competitività nei settori strategici delle telecomunicazioni e dell’energia e vuole riformare il complesso sistema fiscale risalente al 1974 per renderlo più efficiente e garantire che vengano ridotte le sacche di evasione ed elusione.

Sul delicato tema del fisco Draghi aveva aggiunto: nei piani del governo c’è «una revisione profonda dell’Irpef (…) riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività». Tutte queste riforme sono pronte da tempo, ma non si è mai avuta la forza politica necessaria per portarle in consiglio dei ministri e poi in aula. Ora con il Recovery fund c’è un metodo stringente che impone al paese di rispettare gli impegni presi per ammodernarsi, un nuovo «vincolo esterno 2.0», pena la perdita dei miliardi europei.

Nel discorso di investitura del 17 febbraio al Senato Draghi aveva detto: «Avremo a disposizione circa 210 miliardi lungo un periodo di sei anni». Gli obiettivi strategici saranno: «La produzione di energia da fonti rinnovabili, l’inquinamento dell’aria e delle acque, la rete ferroviaria veloce, le reti di distribuzione dell’energia per i veicoli a propulsione elettrica, la produzione e distribuzione di idrogeno, la digitalizzazione, la banda larga e le reti di comunicazione 5G».

In qualche modo l’elenco delle riforme strutturali è stato tracciato da subito e poi implementato, mentre alla Commissione europea spetterà il compito di vigilare sul loro realizzazione, pena la mancata erogazione delle diverse tranche del Recovery. Con la possibilità che un paese del nord possa chiedere alla Commissione di intervenire bloccando i fondi europei in caso di inadempienze. Qualsiasi sia il premier futuro e il governo che lo sostenga la linea impostata da Draghi con la tutela della Bce, Commissione e Consiglio Ue, non potrà essere abbandonata facilmente se non con gravi conseguenze per lo spread e la credibilità dei titoli pubblici del paese.

Inoltre lo stesso Draghi, sempre al suo insediamento, aveva avvertito i senatori: «Questo è lo spirito repubblicano del mio governo. La durata dei governi in Italia è stata mediamente breve ma ciò non ha impedito, in momenti anche drammatici della vita della nazione, di compiere scelte decisive per il futuro dei nostri figli e nipoti. Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni. Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo».

Insomma una volta fatte le scelte decisive non contano i giorni di governo ma la bontà della direzione politica scelta. Naturalmente Draghi potrebbe scegliere di restare al governo fino alla fine della legislatura e poi tentare di diventare presidente del Consiglio europeo forte della sua popolarità con i capi di stato e di governo dei 27. Così facendo garantirebbe l’Ue, ma lascerebbe “scoperto” il nostro paese, considerato da molti l’anello debole dell’eurozona.

L’aspetto geopolitico

Nel discorso di insediamento al Senato il premier ha voluto precisare anche la collocazione internazionale del paese senza se e senza ma. Come mai questa esternazione? Per mettere a tacere tentazioni sovraniste. «Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i paesi nei periodi di recessione».

Insomma per il premier «non c’è sovranità nella solitudine». Parole inequivocabili di fronte a sirene sovraniste e tentativi di aprire a nuove e inedite alleanze con Pechino.

La vera mission del premier appare dunque la garanzia che l’Italia resti inserita in un contesto di forti relazioni transatlantiche con gli Stati Uniti, legata alle democrazie liberali e a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. In questa visione Russia e Cina sono sistemi politici antagonisti con cui dialogare e collaborare, ma tenendo a mente le differenze che ci distinguono dai loro sistemi autoritari. Per garantire per sette anni la collocazione internazionale del paese non si può escludere dunque la possibilità che sia lo stesso Draghi a salire al Quirinale piuttosto che ottenere un incarico a Bruxelles.

Visto che le elezioni del presidente della Repubblica si terranno a gennaio 2022, e il mandato di Draghi scadrebbe nel 2023, questo significa che il premier dovrebbe rinunciare anticipatamente alla carica di presidente del Consiglio per salire al Quirinale, mossa comunque in sintonia con la sua missione principale, quella geostrategica.

Il presidente del Consiglio, peraltro, potrebbe arrivare all’appuntamento forte di un indice di gradimento del 70 per cento, soprattutto per la capacità d’intervento mostrata nella gestione della pandemia e la stabilità garantita all'economia nazionale.

L’attacco a Erdogan

Senza dimenticare che lo stesso Mario Draghi con una frase a inizio mandato che definì il presidente turco Recep Tayyip Erdogan «un dittatore con cui bisogna cooperare» è diventato il nuovo leader in politica estera dell’Unione europea.

Nel triste tramonto senza eredi di Angela Merkel che vede avvicinarsi la fine del suo mandato a settembre e le difficoltà interne di Emmanuel Macron, è toccato al premier italiano andare in Libia e mandare un segnale forte nell’ordine prima a Vladimir Putin, con l’arresto di una talpa italiana al servizio dei russi e poi a Erdogan, proprio i due leader che in Libia si sono divisi la sfera di competenza tra Tripolitania e Bengasi del generale Haftar.

Roma vorrebbe riunificare il paese a noi così vicino mettendo da parte quella rivalità con Parigi ai tempi di Nicolas Sarkozy che aveva segnato, con esiti disastrosi, i rapporti in Libia tra Francia e Italia a tutto vantaggio di russi e turchi.

Anche dal Quirinale infatti Draghi potrebbe indirizzare la politica estera di Roma così come ha fatto da premier, e forse anche quella europea, forte dei contatti diretti con il presidente americano, Joe Biden.

 

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