La crisi politica che sta vivendo oggi l’Italia sembra interessare poco i suoi cittadini, almeno a giudicare dai trending topic che vedono la separazione della famiglia Totti e i concerti di San Siro contendersi gli spazi di confronto tra Conte e Draghi. Eppure, i dossier lasciati aperti dal governo (PNRR, guerra in Ucraina, inflazione, Covid) non lasciano dubbi sulla drammaticità di un momento che solo qualche anno fa avrebbe catalizzato l’attenzione di ogni discussione.

Abbiamo già parlato su queste pagine di come l’indifferenza odierna verso la politica sia dovuta anche alla mancanza di spazi dove le persone possano esercitare una partecipazione attiva alla cosa pubblica, ma questi due anni di problemi globali hanno cambiato così radicalmente il rapporto tra cittadini e società che la domanda sul tavolo non è solo quali spazi costruire, ma come convincere gli stessi cittadini della necessità di frequentarli.

In primo luogo dobbiamo a loro una disillusione: lo strumento preferito dove esercitano la loro dialettica, la rete, non è un luogo di effettiva partecipazione.

Essere community non significa essere una comunità. Gli algoritmi della rete tendono a creare bolle in cui si concentrano opinioni identiche e dove ogni idea non viene discussa, ma se mai rafforzata.

Tuttavia il principio fondante di una comunità non è il consenso, ma una progettualità che si ottiene solo con il confronto di opinioni differenti. Una comunità si regge sulla sintesi partecipativa e proattiva: in rete non ci sono limiti al numero di persone o al tempo attorno a una discussione, ritrovarsi in un luogo fisico presuppone, invece, un numero finito di individui che si danno un tempo preciso per arrivare a un risultato.

In un luogo reale si è costretti ad accettare la molteplicità della diversità, condensandola in un punto di forza per creare un programma condiviso. Online no.

Il problema, però, è come portare le persone ad incontrarsi in una modalità che non sembra più appartenere a questo secolo. Una buona idea viene dall’Irlanda che con le Citizens Assembly chiama i propri cittadini a considerare questioni di interesse pubblico attraverso un sistema simile a quello della formazione delle giurie popolari per un processo.

Nessuno chiede al panettiere o all’infermiera convocati di pronunciarsi su una legge finanziaria, ma i temi in gioco sono tutt’altro che banali. Le ultime assemblee hanno considerato la parità di genere, la perdita della biodiversità e la legislazione sulla droga.

Pensiamoli applicati all’Italia, dove spesso, proprio su argomenti che riguardano scelte personali, (dall’Aborto negli anni Settanta al ddl Zan, al Fine vita) i cittadini hanno dimostrato idee molto più chiare dei loro rappresentanti bloccati nel legiferare in merito.

Certamente uno spazio come le assemblee pubbliche non può sostituirsi alla politica parlamentare, ma anche in funzione consultiva è sicuramente un modo per avere cittadini più consapevoli e responsabili delle scelte e può diventare un interessante incubatore per una classe politica più preparata.

Prima ancora di essere uno strumento di supporto legislativo è un potentissimo concetto culturale, antico come le assemblee dell’Atene di Pericle, dove più del voto, ciò che importa è che la cittadinanza sia informata e partecipe della vita pubblica.

Funzionerebbe in una realtà come la nostra? Magari realizzandole sulla base delle circoscrizioni elettorali di cui pochi conoscono confini e scopi? Già provare a rispondere a questa domanda sarebbe un buon punto di partenza.

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