I mercati sembrano aver preso sul serio l’annuncio della Federal Reserve di alzare i tassi un anno in anticipo rispetto a quanto previsto, già nel 2023. Il messaggio è arrivato chiaro: visto che l’inflazione accesa dalle misure anti-Covid sta ripartendo, siamo già al momento in cui le banche centrali devono dimostrare di essere credibili nell’impegno di riportarla sotto controllo quando sarà inevitabile.

Finora la Fed aveva cercato di convincere i mercati di essere davvero disposta a lasciar correre i prezzi per un po’ senza soffocare la ripresa, ed è stata di parola, visto che i prezzi a maggio sono aumentati su base annua del 5 per cento, più del doppio rispetto a quella soglia che è considerata garanzia di stabilità nel medio periodo.

La spirale

Intendiamoci, il 2023 è lontano e due anni sono un’eternità nel mondo dei mercati finanziari. Ma tutta la partita si gioca sulle aspettative. Quelle di imprese, sindacati e cittadini che devono decidere se l’attuale fiammata di prezzi è temporanea dovuta alla brusca ripresa o l’inizio di una stagione in cui gli attuali stipendi perderanno potere d’acquisto, i fornitori si riveleranno stabilmente più cari del previsto e certi consumi vanno anticipati prima che automobili, lavatrici o cellulari rincarino.

Se si crede che l’inflazione sarà temporanea, nessuno cambierà più di tanto le proprie scelte. Se invece si diffonde la convinzione che sarà strutturale, allora tutti i protagonisti dell’economia metteranno in atto comportamenti che la faranno diventare tale: i sindacati inizieranno a chiedere aumenti, le imprese alzeranno i prezzi finali per compensare l’aumento dei costi, i consumatori cercheranno di comprare tutto il necessario il prima possibile per timore che il loro reddito perda potere d’acquisto.

Per evitare questa spirale è cruciale che le banche centrali siano credibili nell’impegno a togliere le misure straordinarie appena il contesto lo richieda. Piccolo problema: se le banche centrali smettono di stimolare l’economia comprando titoli obbligazionari pubblici o alzando i tassi di interesse, è vero che fermano l’inflazione ma sale il costo di indebitarsi. E questo è un problema per un paese ad alto debito pubblico come l’Italia, il cui indebitamento sfiora ormai il 160 per cento della ricchezza prodotta in un anno.

Già ieri si è visto qualche segnale: l’annuncio della Fed sul possibile aumento anticipato dei tassi di interesse americani ha fatto salire il rendimento richiesto dal mercato per i titoli di Stato di molti paesi europei, con qualche aumento di rendimento anche per il Btp italiano a dieci anni (ora intorno allo 0,8 per cento), poi in parte rientrato. Niente di drammatico, ma indicativo del fatto che è tutto legato, quello che succede negli Stati Uniti e quello che succede qui in Europa e in Italia.

Guardate l’inflazione  

Secondo i dati diffusi ieri da Eurostat, nell’eurozona l’inflazione a maggio era del 2 per cento, in crescita rispetto all’1,6 di aprile. Un anno fa di questi tempi era all’0,1 per cento. Per la prima volta dati tempi della crisi dell’euro un decennio fa, l’inflazione si appresta a superare la soglia obiettivo fissata dalla Bce per la stabilità dei prezzi.

A differenza della Federal Reserve, la Bce non si è mai formalmente impegnata a cambiare approccio nell’interpretare il suo mandato, cioè a considerare di fatto la soglia come un obiettivo medio, flessibile, cosa che equivale a tollerare anche un periodo di inflazione parecchio più elevata del 2 per cento se in precedenza è stata particolarmente bassa.

Non ci sono comunque automatismi, per il momento tutte le misure straordinarie di sostegno all’economia dell’area euro continueranno. Ma il tempo a disposizione dell’Italia per fare riforme capaci di stimolare la crescita a sufficienza da rendere il debito da Covid sostenibile si sta restringendo parecchio.

Se consideriamo i tassi di inflazione nei singoli paesi come un indicatore della rapidità della ripresa, si ripresenta la solita deprimente classifica: a maggio in Italia l’inflazione era all’1,2 per cento mentre in Finlandia al 2,3, in Germania al 2,4, in Spagna al 2,4 e via a salire fino all’Ungheria dove è alla pericolosa cifra del 5,3.

Gran parte dei problemi di gestione dell’eurozona dieci anni fa sono nati dallo scarso allineamento tra le economie europee che procedevano a velocità diverse e quindi avevano bisogno di una politica monetaria diversa.

I paesi che sperimentano ripresa e inflazione elevata, a cominciare dalla Germania, cominceranno presto a premere sulla Bce perché smetta di dopare il mercato obbligazionario. Le scelte della Federal Reserve sono un potente acceleratore di questo processo nel quale, come sempre, l’Italia rischia di rimanere stritolata.

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