L’incontro di Budapest tra Matteo Salvini, il presidente ungherese Viktor Orbán e il premier polacco Mateusz Morawiecki è stato perlopiù interpretato dagli osservatori secondo due linee di lettura: la ricerca di “rispettabilità” (soprattutto da parte del leader della Lega) e il tentativo di avviare una fusione fra i due gruppi dell’Europarlamento – Identità e Democrazia e Conservatori e Riformisti – che, con l’aggiunta dei deputati ungheresi di Fidesz fuoriusciti dal Ppe, disporrebbero dei 148 seggi sufficienti a creare la seconda compagine parlamentare dell’assemblea di Strasburgo. Sono ipotesi plausibili, ma forse insufficienti per capire le ragioni dell’iniziativa.

Ognuno dei tre protagonisti della riunione aveva motivi diversi per aprire un dialogo che, per il momento, rimane allo stadio del semplice evento mediatico.

Per Salvini, una apertura di credito da parte di due primi ministri in carica può effettivamente costituire un passo avanti nella strategia di accreditamento istituzionale che la decisione di entrare nel governo Draghi, voluta o subita che sia, ha inaugurato. Vantando, come già aveva iniziato a fare, i suoi buoni rapporti con i due premier centro-europei, il segretario leghista può presentarsi come un efficace alleato esterno dell’azione che il presidente del consiglio italiano è chiamato a svolgere a Bruxelles, contribuendo ad ammorbidire alcune frizioni con i paesi del gruppo di Visegrád su temi controversi, primo fra tutti l’immigrazione. E nel contempo accentuare quel processo di “destrizzazione” che dopo il ritiro dal governo gialloverde pare essere diventato il suo principale obiettivo per scuotersi di dosso l’immagine di tribuno populista che ormai pare andargli troppo stretta.

Hungarian prime minister Viktor Orban, center, Poland's prime minister, Matteusz Morawiecki, left, and former interior minister of Italy, Matteo Salvini pose after a joint press conference in Budapest, Hungary, Thursday, April 1, 2021. Hungarian prime minister Viktor Orban hosted talks with right-wing politicians, Poland's prime minister, Matteusz Morawiecki, and former interior minister of Italy, Matteo Salvini, a potential opening step toward a new populist political force on the European stage. (AP Photo/Laszlo Balogh)

Gli obiettivi di Orbán e Morawiecki sono, evidentemente, diversi. Per loro, un rapporto stretto con Salvini potrebbe, a prima vista, essere controproducente, caricandoli di quell’alone non ancora dissolto di radicalità che ancora circonda, in molti ambienti, l’ex ministro degli Interni italiano, e da cui entrambi hanno ripetutamente le distanze.

A spingerli all’interlocuzione sono altre ragioni, non meno strumentali. Il primo ministro ungherese, dopo la rottura con i popolari, è in cerca di una collocazione e di un ruolo in sede continentale che gli attuali assetti interni al Parlamento europeo non gli offrono: associarsi a Marine Le Pen o ad Alternative für Deutschland gli affibbierebbe una patente di estremismo, mentre un approdo fra i conservatori, numericamente dominati dalla componente polacca, potrebbe apparire come una perdita di rilevanza, assai poco compatibile con il suo desiderio di protagonismo. Che invece, offrendosi come federatore di una platea politica e parlamentare molto più vasta, potrebbe trovare nuove soddisfazioni.

Quanto a Morawiecki, disporre di un appoggio più consistente ed organizzato nell’europarlamento darebbe al suo governo la possibilità di reagire con maggiore vigore alle periodiche contestazioni che gli vengono rivolte dai vertici dell’Unione europea, e di dissipare almeno in parte quell’immagine di isolamento che da tempo lo circonda.

I dubbi sulla convergenza

In un’effettiva convergenza operativa delle disperse forze populiste e sovraniste ognuno dei tre animatori del colloquio di Budapest troverebbe una sua convenienza, al di là delle dichiarazioni ufficiali, che possono apparire di circostanza e sproporzionate. Ma sulla possibilità che le speranze possano tradursi in realtà gravano molti interrogativi.

Il primo attiene alla effettiva esistenza di un comune retroterra ideale in grado di suscitare l’auspicata convergenza.  Per organizzare, seguendo le parole pronunciate da Salvini all’uscita dal summit, un’alternativa al «predominio culturale ed ideologico di sinistra« occorrerebbe ben più dell’“allargamento del raggio d’azione di altri partiti e di altri governi, oltre a esponenti della società civile a partire da imprenditori e intellettuali» su tematiche che includono «la difesa dei confini e delle vite» e «il valore della famiglia». Sarebbe necessario un progetto di ridefinizione complessiva del profilo identitario e operativo – interno e internazionale – dell’Unione europea di cui, nell’azione delle formazioni che sarebbero adesso chiamate a cooperare, non si è sinora vista alcuna traccia.

Ancora prima, occorrerebbe un’opera di chiarificazione dell’asse attorno al quale l’ipotetica alleanza dovrebbe costituirsi, perché, al di là delle semplificazioni, le istanze del sovranismo e quelle del populismo non sempre risultano compatibili, consistendo le prime soprattutto in una difesa e in un recupero delle competenze dei singoli Stati in materie giudicate di esclusivo interesse nazionale, mentre fra le seconde spiccano un’attenzione verso le esigenze socioeconomiche dei ceti popolari e una volontà di riappropriazione “dal basso” di taluni meccanismi decisionali che trovano scarso entusiasmo nella controparte.

Queste discrepanze spiegano perché, al di là dei facili slogan – come il «rinascimento europeo» o la «visione alternativa a quella di una Unione Europea burocratica e lontana dai cittadini» evocati da Salvini – ogni tentativo di radunare in una sola entità i partiti sovranisti o populisti presenti ormai in tutto il continente sia sinora fallito.

La frammentazione in più gruppi dei loro rappresentanti al parlamento europeo, con passaggi dall’uno all’altro anche nel corso di una singola legislatura e un florilegio di dissidenze e cambi di collocazione di singoli deputati ne è una prova inconfutabile.

In questa eterogeneità, trasformatasi talvolta in rissosità, hanno agito varie motivazioni: da un lato il timore di taluni di “contaminarsi” collaborando con forze in odore di estremismo (come fu per la Lega di Bossi, che evitava ogni contatto pubblico con il Front national pur intavolando sottobanco rapporti e trattative), da un altro le diffidenze legate a particolarità e idiosincrasie nazionali, da un altro ancora le divergenze sul modo di affrontare i temi dell’agenda politica.

L’internazionale populista mancata

French far-right leader Marine le Pen, wearing a protective face mask, stands at the statue of Joan of Arc during a ceremony Friday, May 1, 2020 in Paris. Far-right militants usually gather at the statue for their annual May Day march. (AP Photo/Thibault Camus)

Sono molti gli argomenti su cui l’ipotetica internazionale populista ha sempre avuto grandi difficoltà a trovare un accordo. Al di là della comune ostilità all’immigrazione, sulla questione della redistribuzione dei richiedenti asilo i populisti del Sud Europa si sono sempre opposti a quelli del Centro e del Nord, nient’affatto desiderosi di accogliere quelli approdati sulle sponde del Mediterraneo.

Rispetto ai rapporti con la Russia, le simpatie di francesi, austriaci, ungheresi, cechi ed austriaci (e, almeno fino a ieri, dei leghisti) si sono urtate contro il muro dell’ostilità di polacchi e baltici. Lo spartiacque centralismo/federalismo nella gestione dei rispettivi Stati ha allontanato il nazionalismo spagnolo di Vox dalle iniziali simpatie per la Lega e lo colloca a mille miglia dagli obiettivi politici dei fiamminghi del Vlaams Belang.

Il tradizionalismo morale e i riferimenti alle radici cristiane del Vecchio continente separano nettamente polacchi, ungheresi, spagnoli e italiani dai “confratelli” olandesi e scandinavi e non suscitano particolari entusiasmi in una Marine Le Pen che punta decisamente sull’elogio della laicità repubblicana per vincere la sua futura partita con Macron. E persino il ruolo da assegnare ad un’Unione europea fortemente riformata è oggetto di interpretazioni dissimili: c’è chi la vorrebbe, sotto il profilo strutturale, mantenere così com’è, chi la vorrebbe confederale, chi si spinge ad abbracciare orizzonti federali e chi vorrebbe puramente e semplicemente liberarsene, ritornando alla dimensione del mero mercato economico, invidiando i britannici e la loro Brexit.

In un panorama di questo genere, pronosticare che dall’incontro ungherese possa scaturire, almeno in tempi brevi, un successo sarebbe azzardato. Tanto più che, per cogliere il bersaglio, andrebbero superati problemi di concorrenza nazionale non irrisori (si pensi a Lega e Fratelli d’Italia, ma non è l’unico caso). Per populisti e sovranisti, valicare i confini nazionali è impresa ardua.

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