Secondo i dati di gennaio (elaborati da Studio Frasi) Mediaset cumula su Internet un tempo di visione di 1,3 milioni di ore al giorno per device (smartphone, PC e tablet). La Rai segue la scia con 1 milione tondo.

Se anziché contare il tempo di visione, guardiamo al numero dei clic le distanze divengono abissali.

Il Biscione infatti per ognuna delle sue ore di visione raccoglie quasi 500 clic (totale 649,2 milioni) mentre la Rai al confronto pare lillipuziana perché non supera la media di 147 clic per ogni ora e il suo bottino complessivo di 147,3 milioni di clic è appena un quarto del rivale.  

Trionfo di Mediaset e sconfitta rovinosa della Rai? Solo se si pensa che entrambe debbano sentirsi coinvolte nella stessa gara. Invece Mediaset e Rai sono strutturalmente differenti.

La prima, in quanto tv commerciale, mette ogni impegno a estrarre dai suoi palinsesti quotidiani migliaia di frammenti, come altrettanto bocconcini adatti alle proposte “un’occhiata e via” del mondo social. In tal modo Mediaset, nata per spremere il business degli spot in onda e delle telepromozioni, si è allargata al modello social del clicbait, il prodotto quattrinoso del web 2.0.

Clicbait vuol dire che i soldi che ricavi crescono quanti più clic riesci a provocare, perché fra l’uno o l’altro ci piazzi la pubblicità.

È il trionfo editoriale del frammento, che ben si presta al know how di una Publitalia esperta nel rivendere ai pubblicitari target spacchettati anziché il pubblico inteso in generale.

L’intero convoglio dei canali della casa ha assunto l’aspetto di una tv-tabloid, tutta battute, pose e pseudo fatti (Barbara d’Urso, il Grande Fratello, Uomini e Donne sono tra le principali fonti di tanto ben di Dio) che la sera incolla allo schermo le audience più fedeli e subito rimbalza nei social a pezzettini.

La filosofia di Rai Play

La Rai invece, attraverso Rai Play, usa la rete essenzialmente per consegnare i programmi “tali e quali” al fine di agevolarne il consumo differito. Ne potrebbe compiere un’azione differente perché la sua filosofia di palinsesto non è né può essere mossa dalla strategia dei target e si rivolge invece all’audience generalista che tutti un po’ comprende.

Tant’è che in ogni programma, siano talk o fiction, la struttura del racconto è sempre dominante e se provi a frammentarla ti ritrovi con il nulla e non la chicca.

Ecco perché su Rai Play non può far altro che piazzare la pubblicità nel ruolo di sipario, aperto il quale lo spettatore pretende di arrivare al finale in santa pace. 

Semmai il peccato della Rai consiste proprio nell’avere recentemente infilato gli spot anche su Rai Play addentrandosi in tal modo in campo estraneo. Tant’è che i soldi raccolti sono pochi (lo 0,3 per cento, più o meno, del totale dei ricavi dell’azienda).

Resta da capire se a questo abbia condotto l’angoscia per i conti o forse, peggio, la cultura dei vertici aziendali, poco temprata da meditazioni sul come dare un’anima a un’azienda televisiva pubblica, o almeno da non renderla peggiore di quanto già sia.

Di certo avrebbe avuto maggior senso in prospettiva usare Rai Play in modo differenziato: ad accesso libero per la tv corrente; a pagamento per chi volesse, in stile Netflix, navigare nell’archivio.

Ma forse, senza pensarci troppo sopra, il problema è che la politica, specie se in Commissione Paritetica e Vigilante, pretende di nominare e comandare, ma per sua natura non saprebbe da dove cominciare per assegnare all’azienda un orizzonte.

Così i tapini issati nella plancia di comando al piano settimo, procedono a tentoni e semmai si danno un gran daffare per non muoversi.

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