Mi arriva, come credo a molti altri giornalisti, un appello. Immagino con l’implicita proposta di firmarlo: Noi stiamo con Roberto, si chiama, e lo ha lanciato lo scrittore Maurizio De Giovanni. Si tratta di una difesa di Roberto Speranza, ministro della Salute, che «è stato e continua a essere un punto di riferimento decisivo» (di chi non viene esplicitato) ma che ora è «nel mirino di un attacco politico e personale ignobile». Seguono firme di molte figure della sinistra, da Corrado Augias a don Luigi Giotti a Roberto Saviano a Gabriele Salvatores alla sardina Mattia Santori.

Mi spiace, ma io non lo firmo. 

Per me gli attacchi della Lega di Matteo Salvini e la petizione dell’intellighenzia di sinistra pari sono: tentativi di trasformare in rissa politica una discussione che dovrebbe avere basi scientifiche, o quantomeno razionali.

La Lega ha individuato in Speranza il simbolo delle chiusure e delle restrizioni, gli intellettuali aderiscono a questa narrativa – legittimandola – e difendono il ministro di LeU perché «si è battuto per il principio della massima precauzione e della massima cautela, quando altri ci raccontavano che era soltanto un’influenza e suggerivano di aprire, di correre». E inoltre «si è battuto e si batte per un piano vaccinale efficace e capillare».

Tutte affermazioni opinabili.

Speranza non è stato affatto il campione della «massima cautela». Era sempre lui il ministro della Salute quando si chiudeva e quando si apriva, era lui al dicastero quando è stata fatta la scelta completamente irresponsabile di lasciar correre il virus per tutta l’estate 2020.

La sua valutazione del pericolo era così sbagliata che per l’autunno aveva programmato un tour di presentazioni del libro Perché guariremo, poi saggiamente ritirato da Feltrinelli prima che uscisse, invece che un tracciamento a tappeto dei contagi.

Nel libro, che ho avuto modo di leggere, spicca un unico momento in cui Speranza fa qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri che ha intorno: quando decide di non andare agli aperitivi del Pd “Milano non si ferma” a marzo 2020, quando probabilmente si contagiò lo stesso ex segretario Nicola Zingaretti.

Per il resto Speranza è quantomeno corresponsabile di quanto di buono (poco) e quanto di sbagliato (tanto) hanno fatto i governi Conte e Draghi nella pandemia.

Poteva andare peggio, ma anche meglio

Con l’approccio di Salvini l’Italia sarebbe come il Brasile di Jair Bolsonaro, i morti si conterebbero a centinaia di migliaia. Non c’è dubbio. Ma sapere che con qualcun altro sarebbe andata peggio diventa un titolo di merito? Potevamo ridurci come il Brasile, ma potevamo anche copiare Israele o la Nuova Zelanda.

Nel libro e in tante interviste pubbliche Speranza ha raccontato una versione dei fatti di inizio pandemia molto diversa da quella che sta emergendo dalle ricostruzioni della procura di Bergamo che indaga sulle mancate zone rosse in Lombardia. Francesca Nava ha ricostruito che Speranza era presente a un riunione mai menzionata del 2 marzo 2020, durante la quale l’allora premier Conte decise di non chiudere Alzano e Nembro.

E poi c’è tutta la storia del report dell’Oms critico sul governo Conte che è stato censurato e manipolato, nell’interesse proprio del ministro, a leggere le chat che stanno uscendo in questi giorni. La prima certezza in quella storia è che i ministri della Salute degli ultimi anni, incluso Speranza, non hanno aggiornato il piano pandemico come avrebbero dovuto, e questo ha lasciato l’Italia senza difese all’arrivo del Covid.

Speranza non può essere considerato responsabile di tutto quello che è successo nella gestione commissariale di Domenico Arcuri, incluse le mascherine fallate arrivate negli ospedali di mezza Italia. Ma di certo ha sempre avallato le scelte di Arcuri, così come i tanti pasticci sul mancato tracciamento dei contagi, sulla app Immuni, su un piano vaccinale che di certo finora non è stato “efficace e capillare” ma anzi ha lasciato senza protezione troppo a lungo proprio i soggetti più a rischio di morire di Covid.

Certo, Speranza aveva un compito arduo, forse il lavoro più difficile d’Italia negli ultimi due anni. Si possono criticare molte sue scelte e ci sono sicuramente molti altri argomenti per sostenere che era difficile compierne di diverse.

Ma il fatto che Speranza appartenga a un partito di sinistra come LeU non può essere né una ragione per esasperare le critiche e chiederne le dimissioni ma neppure per schierarsi a testuggine a sua difesa soltanto perché “guai a chi tocca uno dei nostri”.

Che poi l’Italia sia un paese in cui i giornalisti si schierano volentieri a difesa del potere, invece che mantenersi a una sana distanza di sicurezza, spiega tanto anche della scarsa qualità dell’informazione, i cui effetti (talvolta letali) abbiamo visto in questo anno. 

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