La violenza di matrice neofascista davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, nei giorni scorsi, sta diventando lo specchio attraverso il quale vedere riflesse le criticità della destra al potere.

 Il presidente Sergio Mattarella l’ha evocata nel suo discorso ai giovani alfieri della Repubblica al Quirinale: praticare solidarietà e impegno nella comunità è un “antidoto anche contro la violenza” come quella vista «nei giorni scorsi, davanti a una scuola contro ragazzi».

Non un accenno al fatto che quella violenza non era una rissa, come dicono da Fratelli d’Italia, ma un pestaggio da parte di militanti di destra di Azione universitaria (nell’orbita di FdI).

Eppure, poche frasi prima, nel suo discorso Mattarella ha addirittura evocato Hans e Sophie Scholl, della Rosa Bianca, giustiziati per essersi opposti al nazismo “con i messaggi, con gli opuscoli, con gli scritti”.

Oggi userebbero i social, o magari le lettere come quella della preside fiorentina Annalisa Savino che ha scritto agli studenti a commento del pestaggio.

Mattarella minimizza o suggerisce addirittura un paragone tra le violenze di Firenze e quelle dei nazisti? Si ripropone lo stesso dubbio interpretativo di due anni fa, dopo l’assalto neofascista alla sede della Cgil, in coda a una protesta no-vax: l’allora premier Mario Draghi è andato subito ad abbracciare il sindacato e il suo leader Maurizio Landini ma poi non ha usato la legge Mancino per sciogliere Forza Nuova, i cui esponenti avevano partecipato all’attacco.

C’è o non c’è un problema di violenza fascista in Italia? Le massime istituzioni ben consapevoli che la questione è seria, ma sono attente a non evocare alcuna connessione con partiti che potrebbero sentirsi chiamati in causa.

Si devono condannare i pestaggi ma senza tacciarli di fascismo, anche quando le connessioni e le parole d’ordine dei picchiatori fiorentini sono inequivocabili, così come lo erano per Giuliano Castellino e gli altri di Forza Nuova.

Il problema è che la destra al potere, quella di Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, affonda le proprie radici culturali e politiche non nel ventennio fascista, ma nella violenza degli anni Settanta, ha il culto non degli arditi o dei repubblichini, bensì dei “martiri” uccisi dalla (ovviamente ingiustificabile) violenza degli estremisti “rossi”.

Per questo perfino Mattarella è cauto nelle parole di condanna, perché finirebbero per provocare la reazione di una destra meloniana che cementa la propria identità sul sentirsi minoranza aggredita e quindi sempre titolata a reagire, in qualunque modo.

Meloni e i suoi “fratelli di Giorgia”, per citare titolo e tesi del libro di Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, possono rivendicare di essere soltanto “afascisti”, nel senso di una destra che non intende restaurare il regime ma ne reinterpreta e attualizza alcuni ideali.

Le istituzioni repubblicane devono però ricordarsi che non sono imparziali, ma antifasciste sulla base di una Costituzione che i partiti antenati di Fratelli d’Italia non hanno scritto ma che oggi tutti devono rispettare.

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