Lo sfaldamento dei Cinque stelle è iniziato il giorno dopo le elezioni del 2018 ed era inevitabile, per una ragione semplicissima. Fino al 2018, rimanendo all’opposizione di tutto e tutti, avevano attratto elettori, da destra e da sinistra, intorno al discrimine anti-establishment. Quando hanno scelto di allearsi con Matteo Salvini hanno perso un po’ di voti da una parte. Quando lo hanno abbandonato per allearsi con il Pd, sono stati abbandonati da una fetta più consistente di elettori verso destra, alle elezioni europee.

La motivazione anti-establishment, come elemento identitario o incentivo a votare per loro, nel frattempo si è largamente affievolita, sia per i ruoli ministeriali acquisiti dai leader della prima ora sia per la metamorfosi promossa da Giuseppe Conte. Dopo l’ultimo travaso, dalle europee ad oggi, il M5s è rimasto sostanzialmente stabile, intorno al 15-16 per cento delle intenzioni di voto.

Pare difficile che i parlamentari dissidenti espulsi siano ora in condizione di spostare, in proprio, quote significative di consensi su un nuovo soggetto politico. Non sono riconoscibili, non hanno una infrastruttura o risorse per crearla, sono marchiati anche loro dallo stigma dell’incoerenza, dato il risultato comunque netto della consultazione su Rousseau.

E Alessandro Di Battista, che li aspettava, non sembra pronto ad entrare apertamente in conflitto con Beppe Grillo. Gli elettori Cinque stelle che la pensano allo stesso modo su Mario Draghi, come è già accaduto nei passaggi precedenti, costituiranno semmai rivoli di voti in uscita verso altri soggetti politici esistenti.

D’altro canto, se il quesito riguarda più in generale chi può guadagnare consensi nei prossimi mesi, quindi anche attrarre una parte dello scontento grillino, la risposta è una sola: Giorgia Meloni.

Il suo intervento alla Camera ha colto in maniera molto efficace la principale contraddizione alla base del governo arcobaleno, che sarebbe ancora più evidente se venissero convocate per giugno le elezioni amministrative. Ricordiamolo ancora una volta, elezioni che coinvolgeranno, oltre ad altri circa 1.258 comuni, le maggiori città italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna), che contengono da sole il 10 per cento dell’elettorato.

Ma, soprattutto, sono le aree con la maggiore densità abitativa, cioè quelle nelle quali le iterazioni sociali incentivate dallo svolgimento del processo elettorale sono di gran lunga più elevate e dunque, se fosse vero l’assunto, le più a rischio per la diffusione del Covid.

Il fatto che Mattarella abbia usato l’argomento rischio-Covid per giustificare l’aggiramento di quella che lui stesso ha indicato, a premessa, come la via maestra in un regime democratico-parlamentare (il ritorno al voto), apre una autostrada ad una campagna solitaria e martellante della Meloni, che si presenta ancora una volta più coerente del suo antagonista interno Salvini. Che le amministrative si tengano a giugno o settembre saranno la plastica dimostrazione delle sue ragioni e il momento in cui la Meloni andrà all’incasso.

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 09-02-2021 Roma Politica Camera dei Deputati - Consultazioni del presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi Nella foto Giorgia Meloni 09-02-2021 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Consultations of the Prime Minister designate Mario Draghi In the pic Giorgia Meloni

L’unica donna

Per di più, tra tanto discutere sui disequilibri di genere, Giorgia Meloni è l’unica donna con un ruolo di rilievo nella politica nazionale a non avere bisogno di un mentore, di un padre nobile o un capocorrente che la promuova. L’equilibrio di genere lo ha risolto prendendosi il rischio di abbandonare Gianfranco Fini, restaurando al tempo stesso il simbolo della destra italiana che Fini aveva abbandonato nel 2009, disegnato da Giorgio Almirante, allusivo alla fiamma che arde perenne nel cuore dei militanti della destra nazionalista e sulla tomba di Mussolini.

Anche a chi non ha memoria storica per apprezzare questo dettaglio, la “coerenza di Giorgia sui fondamentali” è uno dei fattori che la rendono popolare. Naturalmente, attrae qualcuno e respinge altri. Qui sta anche il suo limite. Nella scarsa duttilità e nella scelta di rimanere ancorata alle radici più controverse della tradizione missina.

Tuttavia, chiedersi “di quanto” sarà avvantaggiata elettoralmente la Meloni è un esercizio futile sia sul piano tecnico (i sondaggi non sono in grado di fornire stime abbastanza precise) che politico.

Lo svolgimento del post-Draghi, dal punto di vista delle prospettive politico-elettorali, era già scritto nel momento in cui è stato affossato il Conte-Ter. Mentre Salvini rassicura il Nord produttivo, la Meloni attrae chi è contro “la sospensione della democrazia”.

Non è necessario che crescano tanto per rendere l’esito delle prossime elezioni politiche già deciso in anticipo. I leader di Pd e M5s pensavano di poter ridurre questo rischio approvando una legge elettorale proporzionale. Ma la mossa di Matteo Renzi, di cui sono stati succubi, l’ha tolta dal tavolo.

In effetti, quindi, un merito la mossa di Renzi l’ha avuta. L’area giallo-rossa (Pd-M5S-Leu-Iv) in parlamento non è più maggioranza. Ed è ovvio che qualsiasi tentativo di accentuare la proporzionalità del sistema elettorale decreterebbe la fine del governo Draghi, con elezioni anticipate a cui nessuno potrebbe dire no.

© Riproduzione riservata