In questi giorni convulsi è stato sottolineato come Mario Draghi non ne potesse più di essere “tirato per la giacchetta”. E così, di fronte dell’ennesima sfida di Conte, abbia deciso di lasciare.

Il governo guidato dal “tecnico” Mario Draghi è caduto come tanti altri governi italiani. Ed è caduto a causa dei dissidi interni alla maggioranza parlamentare.

Niente di nuovo sotto al sole. Eppure emergono diversi elementi che inducono a riflessioni di più ampio respiro sulla crisi della democrazia italiana.

Una maggioranza ampia ma instabile

Non è sorprendente che un governo guidato da un “tecnico” abbia faticato a tenere testa alle richieste (politiche) dei partiti di maggioranza.

Soprattutto in seguito all’allentamento della morsa del Covid-19, è emerso con chiarezza come l’azione di Draghi si scontrasse quasi quotidianamente con le logiche dei partiti, nonostante l’ampia maggioranza che ha votato la fiducia al presidente del Consiglio nel febbraio del 2021.

La logica dell’azione politica di un leader cresciuto all’esterno del sistema politico è diversa da quella dei partiti, soprattutto quando si avvicina la data delle elezioni.

La sfida era identificare alcuni obiettivi condivisi, alla luce dell’importanza del Pnrr, su cui far convergere gli interessi dei partiti che sostenevano il governo.

Una sfida quasi impossibile, perché avrebbe significato – per tutti i partiti – sacrificare alcuni punti chiave del proprio programma (come l’Agenda sociale di Conte e del Movimento Cinque stelle) per una ragione superiore: non mettere in difficoltà il governo.

Fino a poche settimane fa il presidente Draghi è stato abilissimo a scansare molte insidie; tuttavia, all’avvicinarsi delle elezioni (e in presenza di differenziazioni crescenti tra i partiti, incluse spaccature e scissioni) il meccanismo si è inceppato. E si è inceppato per la sopraggiunta impossibilità di tradurre logiche distinte (quella del Presidente del Consiglio e quelle, divergenti, dei partiti) in unità di intenti di politica pubblica.

L’importanza di una cultura di governo

In secondo luogo, i governi “tecnici” sono considerati tali solo in virtù di una convenzione: ciascuna scelta del governo o del parlamento riguarda sempre questioni politiche e genera conseguenze politiche. La qualifica “tecnica” riguarda la leadership, che in questi casi risulta esterna al sistema dei partiti e proveniente dagli alti rami dell’amministrazione repubblicana. In una democrazia che funzioni, i governi guidati da “tecnici” dovrebbero essere “eccezionali" – se non del tutto inesistenti.

Fino al 1993 l’Italia non era mai stata governata da presidenti del Consiglio “tecnici”. Invece, nel corso degli ultimi trent’anni, i governi guidati da “tecnici” sono stai quatto: Ciampi (1993-1994), Dini (1995-1996), Monti (2011-2013) e Draghi (2021-2022). A parte Monti, tutti ex-governatori o direttori generali della Banca d’Italia – con Draghi che è stato anche presidente della Banca centrale europea.

Perché l’Italia, e – si badi bene – solo l’Italia ha avuto un numero così elevato di governi guidati da “tecnici” negli ultimi trent’anni? È solo a causa della frammentazione partitica? O dell’elevata litigiosità dei politici italiani? O della loro presunta incompetenza?

A nostro avviso le ragioni di questo ricorso anomalo a leader esterni al sistema partitico dipendono soprattutto dalla limitata cultura di governo dei partiti stessi.

Una cultura di governo che, in un sistema parlamentare con governi di coalizione, come nel caso italiano, richiede – costantemente – la necessità di trovare un compromesso.

Non si tratta di un inconveniente sorto per caso: il crollo rovinoso del sistema dei partiti nel 1992 ha comportato la recisione delle radici culturali delle principali famiglie politiche del paese.

I partiti nati nel corso degli ultimi trent’anni non dispongono più della cassetta degli attrezzi (come ad esempio strutturate – e non personali – scuole di politica) che li aiuti a elaborare una “certa idea dell’Italia”, sulla base della quale confrontarsi e raggiungere ragionevoli compromessi con le altre forze.

Un maestro delle scienze sociali quale Alessandro Pizzorno ricordava sempre quanto sia importante definire la propria identità anche per calcolare i propri interessi.

Quanto sia importante sapere chi siamo per decidere in quale direzione muoverci e con quali compagni di viaggio. Per sapere quali interessi rappresentare e come tutelarli, come ricomporli con altri interessi in un quadro complessivo non effimero.

Già è un compito difficile quando i partiti al governo si collocano su uno stesso versante politico, figuriamoci in un contesto di ‘governo di larghe intese’.

Come ha ricordato Piero Ignazi, Draghi non ha imparato (o non ha voluto imparare) che la politica significa compromessi e pazienza infinita – per non ricorrere all’abusata definizione di Rino Formica. Ricordiamo come, alla nascita del governo Draghi, alcuni osservatori ritenessero risolta, in quel modo, la crisi di legittimità delle classi dirigenti italiane.

In realtà, il ricorso a leader di governo esterni al sistema partitico conferma la crisi funzionale dei partiti italiani, costretti a ricorrere a personale esterno per affrontare i frangenti politici più impervi. Questo è il problema politico centrale.

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