Ecco l’arrivo della “norma Willy”. Un provvedimento pensato dalla politica per evitare che un omicidio come quello di Willy Duarte possa accadere ancora. A Willy non potrà più essere fatto nulla perché Willy è morto barbaramente ucciso. Non potrà essere restituito alla sua vita, alla sua famiglia e al suo paese, Colleferro, alle porte di Roma. Willy è andato per sempre. Questa è la sola e unica verità.

Ora il governo ha pensato che la soluzione all’imbarbarimento culturale sia l’inasprimento della repressione. E così in un decreto nuovo di zecca, intitolato alla memoria del ragazzo ucciso, ha previsto pene più severe per chi partecipa ad una rissa davanti a un locale: saranno aumentate da tre mesi fino a 5 anni, a sei mesi fino a sei anni. Ai protagonisti dei disordini potrà essere imposto il Daspo da specifici locali o esercizi pubblici. In pratica non potranno più avvicinarsi a quei luoghi della movida.

Tutto questo risolverà il problema? Eviterà il ripetersi dei fatti che hanno portato alla morte di Willy? No. Certo che no. È fin troppo evidente che aumentare le pene di qualche mese o di un anno non serve assolutamente a nulla.

Questi ragazzi, spaventosi protagonisti di siffatte brutali aggressioni, non girano certo col codice penale in mano. Tantomeno si fanno intimidire da un Daspo. Sono provvedimenti che accontentano, ancora una volta, la pancia dei cittadini i quali, prendendo felicemente atto dell’inasprimento delle pene, li vedono già tutti in galera. Soddisfatti e rimborsati.

Rimborsati per l’orrore provato davanti al racconto della tragedia che ha devastato la vita della famiglia Duarte. Ancora una volta si vuole prendere la scorciatoia emotiva abbandonando qualsiasi altra via. Ancora una volta non ci si fa carico del vero problema che innesca questi fatti criminali. Ancora una volta si scommette su repressione e punizione, che tengono, però, lontana l’origine di queste terribili vicende.

Andrebbe fatto uno studio serio di questi fenomeni criminali indagando su cause ed effetti. E poi si dovrebbe passare ai fatti. Fare sociologia in questo contesto, postuma all’uccisione di quel bellissimo ragazzo, assomiglierebbe troppo a una scontata e stucchevole giustificazione di quelle violenze. Va fatto prima e a prescindere perché il problema esiste ed è fin troppo evidente. E non lo si può risolvere con qualche sindaco sceriffo o con una inutile e dannosa repressione.

Una pena certa e giusta

Ma qual è la reazione della famiglia di Willy? Può sentirsi meglio vedere il nome del proprio figlio ucciso associato ad un provvedimento di legge repressivo? Sbaglierò ma non credo. Penso che lo sarebbe ben di più se, viceversa, a portare il suo nome fosse una qualcosa di positivo che restituisse speranza e fiducia a una generazione martoriata dal nostro cinismo costantemente emergenziale.

A parlare è il loro avvocato e già questo è un segnale: «La famiglia di Willy vuole una pena certa e giustizia. Come avvocato non credo che legiferare in emergenza sia la cosa più saggia. Ci sono le norme ma bisogna far sì che le pene siano espiate ed abbiano funzione rieducativa. Bisognerebbe valutare perché episodi del genere si verificano». Come dargli torto?


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