Questa pandemia di Covid-19 ci ha costretto a rivedere i nostri stili di vita, ma suggerisce anche di rivedere alcuni principi della nostra politica economica. Fino al 1983, in Italia la curva di tassazione dei redditi delle persone fisiche comprendeva dieci scaglioni di reddito e sulla parte eccedente i 550 milioni si applicava l’aliquota del 72 per cento. Questa politica era accettata da tutte le parti sociali e non impedì certo l’elevato sviluppo economico di quegli anni. Anche nel Regno Unito negli anni Settanta, durante i due shock petroliferi, la tassazione dei redditi delle persone fisiche arrivava all’aliquota dell’83 per cento sullo scaglione di reddito più alto. Nel 1982 l’imposta sul reddito delle società era del 37 per cento in Italia e 52 per cento nel Regno Unito.

Da allora le teorie liberiste e conservatrici sostennero la diminuzione dell’imposizione fiscale come strumento determinante per lo sviluppo economico. È iniziata così una progressiva riduzione del carico fiscale che prevede oggi in Italia un’aliquota massima del 43 per cento sui redditi delle persone fisiche (45 per cento in Francia, Germania e Regno Unito) e un’imposta del 24 per cento sul reddito delle società (19 per cento nel Regno Unito).

Questa politica ha prodotto un aumento esponenziale delle disuguaglianze sociali, perché la riduzione del carico fiscale ha favorito solo i percettori di alti redditi che sono diventati sempre più ricchi, come hanno dimostrato gli economisti Anthony Atkinson e Thomas Piketty. Una visione miope, perché le disuguaglianze sociali sono una delle cause che impediscono la crescita economica.

Il rapporto Oxfam del 2019 indica che nel 2018 26 miliardari possedevano la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta. Nello stesso periodo in Italia il 20 per cento più ricco possedeva il 72 per cento dell’intera ricchezza nazionale. La pandemia ha accentuato questo divario.

Dopo il Covid-19

Appare dunque necessario rivedere la politica economica relativa alla distribuzione della ricchezza e del reddito. La politica fiscale è il classico strumento usato per questo scopo. In Italia si dovrebbe cominciare a rivedere la curva dell’imposizione sul reddito delle persone fisiche: si potrebbero ridurre le aliquote sui redditi più bassi e arrivare a un’aliquota del 60 per cento o 70 per cento sullo scaglione di reddito più elevato, per redditi superiori al milione di euro.

Molti manager percepiscono compensi annui di oltre tre milioni di euro, quello che un normale impiegato percepisce in 75 anni di lavoro. Siamo lontani dalla regola morale di Adriano Olivetti che stabiliva che anche il dirigente più elevato non doveva guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minimo. L’imposta sulle società potrebbe essere portata al 30 per cento, in Francia è già al 34 per cento.

In tutta Europa, poi, esiste un’imposta sulla prima casa. In Italia è stata abolita solo per ragioni elettorali e sarebbe dunque il caso di ripristinarla. In Francia esiste l’Impôt sur les grandes fortunes che ha come base imponibile la ricchezza del contribuente, come in Spagna. In Italia, appena si accenna a una possibile imposta patrimoniale scoppia la rivoluzione della destra.

Eppure da una recente ricerca appare che quattro italiani su cinque sono favorevoli a un’imposta patrimoniale, che potrebbe permettere una riduzione delle imposte sul lavoro. Infine occorre una razionalizzazione delle altre imposte non sul reddito, come l’imposta di successione recentemente esaminata da Vincenzo Visco su queste colonne.

Il debito

Tutto questo appare necessario se consideriamo il macigno del nostro debito pubblico. Buona parte del Recovery fund dovrà essere restituito e non possiamo aspettarci che sia solo lo sviluppo dell’economia post-Covid a creare i fondi necessari.

Allo stesso tempo, occorre una legge (regolamento) comunitaria che fissi gli stessi sistemi e aliquote fiscali, per le persone fisiche e giuridiche validi in tutti i paesi membri, basata su un’effettiva equità redistributiva. Dovrebbero essere cancellati i paradisi fiscali europei: Lussemburgo, Olanda con le Antille Olandesi, Francia con Monaco-Montecarlo, Spagna con Andorra, Italia con San Marino, anche se quest’ultimo conta ben poco.

Si porrebbe così fine all’odiosa concorrenza fiscale tra i paesi europei, che ha portato aziende come Mediaset, Fca, Ferrari e Luxottica a fissare la loro sede legale in Olanda.

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