I supermercati cambiano, sono in continua trasformazione, nelle forme, nelle dimensioni, nelle offerte. Cambiano al cambiare della società, del potere d’acquisto delle persone, dei tempi di vita. Soprattutto, i supermercati hanno la straordinaria capacità di intercettare le nuove tendenze come nessun altro.

Basta attraversare le corsie del nostro punto vendita di fiducia per osservare l’evoluzione – apparentemente inesorabile – del cibo che, negli anni, è diventato sempre più un prodotto trasformato, sempre meno materia prima. E anche il prodotto trasformato lo è diventato sempre di più. Se fino a qualche anno fa, ad esempio, eravamo abituati a comprare pomodori pelati che poi andavano cucinati per ore, oggi compriamo direttamente il sugo pronto, solo da scaldare. Ce ne sono a decine, per ogni gusto. Questo passaggio storico e solo apparentemente indolore è avvenuto perché, per preparare il sugo come si faceva una volta, c’è bisogno di tempo e, negli anni di una crisi che sembra non finire mai, il tempo non c’è.

Ecco perché i prodotti ready to eat (pronti da mangiare) sono diventati il settore che ha trainato le vendite. Per dare un numero: il valore dei piatti pronti venduti prima della pandemia è stato di 16 miliardi di euro. Tolta la lunga parentesi pandemica dove abbiamo riscoperto il piacere della cucina, ora si sta tornando alla fase in cui per nutrirci vogliamo fare sempre meno. Devono fare tutto gli altri, noi dobbiamo solo usare le mani per portare il cibo alla bocca. Questo spiega il boom del cibo da asporto, delle decine di app per ordinare pranzi e cene che ci vengono consegnati dopo pochi minuti da rider in bicicletta, spesso sfruttati e costretti a lavorare per pochi euro l’ora.

Sulle pagine di questo giornale l’abbiamo raccontato più volte e con l’associazione Terra! abbiamo analizzato in profondità come, negli anni, il settore alimentare si sia ingegnato e abbia cercato soluzioni che potessero rispondere alle esigenze di consumatori sempre meno disponibili a passare ore davanti ai fornelli. E abbiamo visto fiorire fabbriche adibite alla preparazione di quel cibo al nostro posto. Così, dopo i prodotti di IV gamma (le insalate in busta) sono arrivati quelli di V gamma ed è su questi ultimi su cui l’industria alimentare ha spinto l’acceleratore.

Parliamo di prodotti ortofrutticoli che vengono precotti e confezionati sottovuoto o cotti al vapore, grigliati o lessati e confezionati in atmosfera protettiva, una tecnologia di confezionamento che aumenta il periodo di conservazione. Ma non solo. L’obiettivo dei manager dell’industria alimentare e della grande distribuzione organizzata è quello di offrire prodotti ad “alto contenuto di servizio” perché quel servizio (cucinare al nostro posto) è un costo per il consumatore e, di conseguenza, un guadagno per il settore alimentare. Sembra un sistema perfettamente oleato che però, oggi, deve fare i conti con un’inflazione a doppia cifra che è entrata prepotentemente nelle nostre vite e che ci ha ricordato che il cibo ha un costo.

E quando una famiglia – grande o piccola che sia – si trova a dover fare i conti a fine mese e decidere cosa tagliare, a farne le spese è proprio quell’“alto contenuto di servizio”. Secondo il rapporto annuale di Coop non ci sono dubbi: per affrontare una crisi inflattiva di queste proporzioni le persone dovranno «iniziare a stringere la cinghia» e mettere da parte «prodotti alimentari di fascia alta», tra cui, appunto, i piatti ready to eat.

Certo, rinunciare a degli acquisti non è piacevole. Forse, però, questa frenata causata dall’inflazione potrebbe aiutarci a riflettere sulla reale necessità e sulle reali motivazioni che ci spingono a desiderare così tanto un prodotto pronto da mangiare e, magari, potremmo persino accorgerci che quell’ “alto contenuto di servizio” ha sempre bisogno – sempre – di una confezione di plastica, di un packaging che, per quanto possa essere considerato sostenibile, è sempre una esternalità negativa che non fa bene all’ambiente.

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