Il risultato delle elezioni del 25 settembre è molto chiaro: il prossimo governo sarà guidato dal centrodestra, con il peso del partito di Giorgia Meloni di gran lunga superiore rispetto a quello degli altri alleati.

Complice il risultato deludente di Lega e Forza Italia (che festeggia, ma perde quasi metà dei consensi rispetto al 2018), è molto probabile che sarà Fratelli d’Italia a dettare l’agenda economica del governo. Da questo punto di vista, il partito di Giorgia Meloni non si è sbilanciato molto: difficilmente si trovano annunci mirabolanti e promesse molto costose all’interno del programma, mentre spesso a fare da padrona è la vaghezza delle proposte. Da una parte, si tratta di una notizia rassicurante: a differenza della Lega nel 2018, Fratelli d’Italia non si troverà subito nella condizione di dover mantenere le proprie promesse con costi molto elevati, un bene per il partito e per i conti del paese. Dall’altra, l’assenza di misure “bandiera” rende molto complicato prevedere quale sarà l’azione di governo sulla politica economica e rischia di mettere Meloni nella condizione di non poter dimostrare il successo e la realizzazione delle promesse da parte del suo governo.

La Lega non può puntare i piedi

Da qui alla fine dell’anno il governo dovrà spendere circa 40 miliardi di euro per misure di contrasto alla crisi inflazionistica in atto. Lo spazio di manovra per eventuali promesse elettorali, dunque, è molto ristretto. Gli alleati di Fratelli d’Italia, in particolare Matteo Salvini, spingeranno per la realizzazione di alcune delle proposte dei propri partiti, in parte rappresentate anche all’interno del programma del centrodestra unito. La Lega, per esempio, parla già dello scostamento di bilancio da 30 miliardi per sostenere famiglie e imprese o della realizzazione di Quota 41. Visto il risultato deludente alle elezioni, però, Meloni sfrutterà probabilmente la vaghezza del programma del centrodestra per non realizzare nessuna delle proposte di bandiera degli alleati. Per quanto riguarda Quota 41, per esempio, nel programma della coalizione si parla genericamente di «flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso alla pensione, favorendo il ricambio generazionale», senza alcun riferimento preciso alla misura proposta dalla Lega. Lo stesso si può dire per l’innalzamento delle pensioni minime o per la flat tax, che Fratelli d’Italia cita solo parlando dell’innalzamento della soglia per l’aliquota del 15 per cento alle partite Iva da 65 a 100mila euro di ricavi.

Sia chiaro, questo non significa che il nuovo governo non approverà misure dall’efficacia discutibile e dal considerevole impatto sui conti pubblici, ma sembrerebbe che la situazione non sia così grave come ci si poteva aspettare prima delle elezioni, soprattutto se si fosse registrato un risultato elettorale migliore per la Lega.

Salvini, d’altronde, non potrebbe semplicemente decidere di far cadere il governo perché non viene ascoltato. Come potrebbe giustificare al proprio elettorato la distruzione del primo governo di centrodestra da oltre dieci anni?

Cosa aspettarci dunque da questo nuovo governo? È probabile che Meloni segua un approccio simile a quello dei conservatori britannici (sperando di non ottenere gli stessi disastrosi risultati sui mercati): tagli alle tasse, soprattutto per le imprese, e conseguente riduzione della spesa in servizi pubblici per mantenere un certo equilibrio di bilancio. 

Le risorse per un taglio si potrebbero trovare anche razionalizzando la spesa, come la destra propone di fare da anni, senza però mai realizzare davvero una spending review efficace. D’altronde, per rendere l’economia più efficiente occorre andare a colpire delle rendite di posizione, e l’atteggiamento della destra verso la legge sulla concorrenza la dice lunga sull’improbabile volontà del governo di colpire queste rendite.

E il Pnrr?

Il centrodestra ha parlato della possibilità di rivedere il Pnrr, anche se sarà molto difficile farlo, visto il complicato meccanismo di approvazione iniziato dal governo Conte II e terminato con Draghi.

È probabile che qualche piccola modifica verrà fatta, ma servirà soprattutto a rivendicare il fatto che si sia riuscito a cambiare qualcosa, più che a modificare davvero la direzione del piano. In realtà, il Pnrr sarà probabilmente la salvezza di questo nuovo esecutivo: buona parte delle risorse che verranno investite in Italia nei prossimi quattro anni sono impegnate nel piano e, se le cose vanno bene, il centrodestra potrà rivendicare una perfetta attuazione del Pnrr, mentre se andranno male potrà sempre incolpare chi il Piano lo ha disegnato.

La legge di bilancio che definirà il governo Meloni non sarà probabilmente quella di quest’anno, viste le risorse necessarie a contrastare la crisi, ma anche nei prossimi anni è probabile che non assisteremo a finanziarie macroscopiche come quella per il 2019, bensì a un meticoloso “compitino” per ottenere i fondi europei, accompagnato da qualche regalo all’elettorato per convincerlo che, con un governo di destra, lo status quo viene mantenuto, con qualche vantaggio per alcune categorie.

D’altronde, il ricevimento della seconda tranche di fondi per il Pnrr nonostante il fallimento delle riforme del governo Draghi dimostra che l’Unione europea può evitare derive autoritarie, ma non può, purtroppo, costringere il paese a realizzare gli interventi che servirebbero davvero.

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