Intrigante il discorso proposto su questo giornale da Gianfranco Pasquino. Scorgere nel politicamente corretto la trama potenzialmente insincera di ciò che si considera lecito dire o non dire aiuta a sciogliere un paio di rischi. Il primo è cedere all’ipocrisia di chi pensa e non parla, così limitando la propria libertà. L’altro è alimentare una censura delegando a una giuria di dubbia legittimità il diritto di scomunica verso chi dissente con troppo rumore dall’opinione prevalente e ritenuta giusta.

Allora dove piantare i confini per consentire a politically correct e cancel culture di ancorarsi all’ambito del ragionevole? La mia risposta è che non lo so. In questo sposo la premessa di Pasquino sulla complessità della materia. Con un’aggiunta. Temo che l’intera discussione risenta di uno scadimento del discorso pubblico nonché del grado di reputazione delle cosiddette élite o classi dirigenti.

Anni fa Pietro Citati spiegava perché il male che aggrediva l’Italia era da scorgere nella fine del principio di autorità. Naturalmente non lo declinava in chiave di autoritarismo, ma di autorevolezza. Viviamo un tempo, questo era l’assunto, dove nessuno crede più a nessuno: politici, intellettuali, imprenditori e sindacalisti, per finire a magistrati, giornalisti o ufficiali in divisa. Potrei aggiungere che fatico non poco a trovare nella memoria aggressioni verbali al papa o manifestazioni di CasaPound a ridosso del porticato di san Pietro, pure questa, dunque, novità alquanto recente. Intendo dire che non in un tempo remoto, ma fino a ieri l’altro più o meno, esistevano profili che un costume condiviso tendeva a preservare in un riconoscimento del ruolo e funzione che quelle figure, o istituzioni, finivano coll’incarnare in sé. L’aspetto aveva molto a che fare con un “ordine” della comunità, una sorta di patto finalizzato a garantirne l’equilibrio, se non proprio la conservazione, scansando deviazioni impreviste verso rotte che quell’ordine avrebbero potuto sovvertire. Ma cosa accade quando anche quegli argini vengono meno?

Prendiamo l’indagine a carico del professor Gervasoni accusato di offese ripetute, per fortuna solamente via tastiera, al capo dello stato. Al netto della condanna su una condotta imperdonabile mi chiedo se all’origine del problema non vi sia precisamente la denuncia di Citati, la rinuncia a un principio di autorità e a un conseguente esercizio di responsabilità. Anni fa mi pare fosse stato il capo della Lega in persona, Umberto Bossi, a intrattenere i giornalisti su un presunto esercito padano disposto, alla bisogna, a imbracciare i fucili. L’uscita aveva suscitato qualche clamore presto giustificato dal carattere fumantino dell’uomo. Insomma, era solo una battuta e finita lì. Invece no: purtroppo quando si consumano strappi simili è complicato riavvolgere il filo perché a quel punto i buoi non solo sono usciti dalla stalla, ma guidano il carro.

Quando Radio Radicale aprì i microfoni a un libero flusso di coscienze non dotate di galateo, Pigi Battista interpellò Pannella sulla Stampa e alla domanda se non temesse di passare alla storia come responsabile del «più osceno turpiloquio radiofonico», Marco rispose denunciando la «pigrizia mentale» di chi non coglieva l’aspetto più interessante di quelle scurrilità. Spiegava: «Non c’è un sociologo che si prenda la briga di studiarle, quelle voci», e nemmeno un «linguista». Forse qualche ragione l’aveva, nel senso che non solo abbiamo aperto la stalla, il punto è che non ci siamo neppure presi la briga di far due chiacchiere coi buoi. 

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