Non serve a nulla, ed è sbagliato, criticare alcuni politici, italiani e francesi (mi limito a questi due contesti) perché usano toni e argomenti populisti, al tempo stesso rimproverando partiti (il Partito democratico, ad esempio) e leader (il presidente Emmanuel Macron, altro esempio) per avere, più o meno deliberatamente o per incapacità, abbandonato il popolo. Quasi esistesse una contrapposizione netta fra chi va, populisticamente, verso il popolo (i narodniki nostri contemporanei) e chi si muove nelle zone a traffico limitato.

Maggiore sofisticatezza analitica offrirebbe un quadro più composito e realistico degli elettorati nei sistemi politici democratici e riuscirebbe a rendere conto di situazioni in cambiamento segnate oggi più di ieri, anche a causa di grandi migrazioni da fattori culturali.

Prendo le mosse da una considerazione che ritengo imprescindibile. In tutti i regimi democratici esiste sempre una striscia, più o meno grande e visibile, di populismo. D’altronde, senza popolo non è possibile parlare di democrazia.

Poi, sicuramente, quello che fa la differenza sono le modalità con le quali gli uomini e le donne in politica fanno appello al popolo, affermano di interpretarlo (“la gente non ci capirebbe”) cercano di mobilitarlo, in special modo, contro i “nemici del popolo”, a fare la differenza.

Al popolo, però, fanno riferimento anche i nazionalisti che vogliono guidarlo, utilizzarlo e contrapporlo ad altri popoli, spesso considerati inferiori, addirittura non-popoli. Quando questo nazionalismo appare frusto e oramai privo di slancio, può servire, in particolare nell’ambito del processo di unificazione politica federale dell’Unione europea, richiamare il pericolo della perdita di identità e di sovranità.

Il ripiego del sovranismo

French far-right candidate Marine Le Pen leaves her campaign headquarters in Paris, Monday, April 11, 2022. With the first round of the French presidential elections out of the way, the duel starts afresh for incumbent centrist Emmanuel Macron and his far-right challenger Marine Le Pen. (AP Photo/Francois Mori)

Con qualche sorpresa dei dirigenti populisti, non sembra vero che tout se tient. Di qui alcune battute d’arresto, alcuni riorientamenti, alcuni riposizionamenti in Italia e in Francia accompagnati da alcune regressioni elettorali.

I populisti di tutto il mondo spesso si riconoscono, ma altrettanto spesso fanno fatica a unire le loro forze. Proprio non possono dare vita a una ininterrotta rivoluzione identitaria e ripiegano nel “sovranismo in un solo paese” (il loro). Anzi, almeno i più accorti fra loro evitano di impegnarsi, se non a parole e a distanza, in troppi entusiastici riconoscimenti e approvazioni.

Per alcuni populisti il richiamo al popolo viene subordinato, magari anche solo di poco, all’idea di nazione che mi pare il caso di Marine Le Pen. Altri hanno di recente provato ad accentuare il sovranismo subito “puniti” dalla necessità in caso di pandemia di cooperare per soluzioni che non si riescono a trovare negli asfittici confini nazionali.

Quale nazione da sola si sentirebbe al sicuro dalle mire espansionistiche di un paese, per esempio, come la Russia? Sapendolo leggere, il voto di milioni di cittadini “democratici” rivela sempre qualcosa che non può mai essere spiegato da un unico fattore e per ciascuno degli elettori possono esserci differenti scale di priorità.

Tanto nel voto per Marine Le Pen quanto nel voto per Jan-Luc Mélenchon esistono motivazioni populistiche, “noi, popolo dimenticato dalle élite”, ma ne segue una divaricazione immediata.

La candidata del Rassemblement National vuole più potere per il popolo dei francesi autoctoni. L’ex-socialista Mélenchon si preoccupa, politicamente ed elettoralmente, della crescita delle diseguaglianze, certamente, non al primo posto nell’agenda neo-centrista del residente Emmanuel Macron.

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