Censura o tutela della democrazia? Tardiva consapevolezza del proprio ruolo o abuso di potere? Le opinioni polarizzate sulla decisione delle piattaforme digitali di chiudere gli account di Donald Trump di solito dipendono dall’idea che si ha della loro natura.

Chi pensa siano imprese private che ci offrono un servizio a condizioni che ci impegniamo a rispettare non vede nulla di scandaloso nell’espulsione del presidente degli Stati Uniti: ha violato i termini del contratto, perché ha incitato alla violenza.

Poi c’è chi pensa che le piattaforme digitali siano qualcosa di diverso, infrastrutture della nostra vita pubblica che per colpa di una serie di errori di regolazione, per colpa di cambiamenti tecnologici troppo rapidi sono sotto il controllo arbitrario di alcuni imprenditori della Silcon Valley con tendenze totalitarie. E che questo sia un grosso problema democratico.

Come ha osservato il politologo Francis Fukuyama in una intervista a ProMarket.org del 4idcembre, «in una democrazia non ci affidiamo alla speranza che pochi individui molto potenti siano animati da buone intenzioni, ma vogliamo istituzioni e tutele che rendano difficile per i potenti malintenzionati danneggiare la nostra democrazia».

Chi viola i contratti?

La prima posizione sembra semplice e lineare, ma proprio i fatti degli ultimi giorni la contraddicono. Per prima cosa, le piattaforme digitali non sono in grado di far rispettare le regole che impongono. Prendiamo la sezione “regole e norme” di Twitter. Tra le espressioni e i commenti vietati perché incitano all’odio, viene citata a titolo di esempio questa frase: «Spero che ti venga un cancro e muoia». Ma basta una piccola ricerca per trovarne decine di esempi, tipo: «Spero ti venga un cancro alla prostata» (a commento di una foto con Silvio Berlusconi e Flavio Briatore). Twitter, come Facebook, non sa far rispettare le regole, per questo chiede agli utenti di segnalare comportamenti inaccettabili e poi si riserva l’ultima parola per decidere se e come punire l’utente scorretto.

Le piattaforme prendono decisioni in modo discrezionale e senza rendere conto a nessuno se non ai propri azionisti (ma spesso sono ancora controllate dal fondatore-amministratore delegato).

La scelta di chiudere l’account di Donald Trump il 9 gennaio e non il 29 maggio, quando ha incitato la polizia a sparare sui manifestanti del movimento Black Lives Matters(“quando si comincia a saccheggiare, si comincia a sparare”) è arbitraria, presa non si sa bene da chi, perché nessuno se ne assume la responsabilità personale.

Quando un cliente decide o è costretto a cambiare fornitore, di solito ha un’alternativa. Nel caso delle piattaforme non è così. Non ci sono due Twitter o due Facebook, o due Google. Come stiamo vedendo in questi giorni, l’azione coordinata delle maggiori piattaforme può cancellare chiunque dalla scena pubblica, perfino un presidente degli Stati Uniti in carica, figurarsi persone meno potenti.

E già questo dovrebbe sollevare qualche perplessità: nessuna compagnia privata ha mai avuto un simile potere. Oggi chiudono l’account di Trump, ma se invece di Mark Zuckerberg alla guida di Facebook ci fosse il suo storico finanziatore e socio Peter Thiel, trumpiano, forse avrebbero chiuso quelli dei militanti di Black Lives Matter.

E’ una delle schizofrenie della nostra epoca quella di pretendere il rispetto di certi diritti da parte dell’autorità pubblica ma non da quella privata.

La nostra vita pubblica

E qui veniamo al secondo modo di interpretare la natura delle piattaforme digitali: non sono semplici aziende private, sono infrastrutture, pezzi della nostra vita pubblica. Quello che avviene nell’arena dei social non è soltanto parola, è azione: alla sua nascita Facebook serviva a dare i voti alle ragazze di Harvard, poi è diventato l’aggregatore di foto delle vacanze e una protesi emotiva, oggi è spazio di transazioni economiche, di pubblicità, ospita palinsesti televisivi.

Il fatto che tutto questo sia controllato da un’unica società è il risultato di una somma di errori politici, non una condizione naturale. E tra le conseguenze di questo strapotere c’è il fatto che le piattaforme hanno tolto ai giornali gli introiti pubblicitari del nuovo mercato digitale, dando un contributo decisivo al peggioramento della qualità dell’informazione.

Non basta pretendere che le piattaforme rispettino la legge, perché le piattaforme sono in grado di condizionare come le leggi vengono scritte e chi le scrive: possono cambiare in modo discrezionale le regole sulla propaganda politica via social per favorire un candidato o l’altro, possono fare lobbying, ma possono anche incidere sul modo in cui noi pensiamo al problema stesso del loro ruolo.

Vi pare un’esagerazione? Durante la campagna elettorale per le presidenziali, Twitter vietava alle università di sponsorizzare a pagamento i post che presentavano le ricerche accademiche sui temi discussi in campagna elettorale, impendendo così di rendere più visibili contributi scientifici che avrebbero migliorato la qualità del dibattito, lasciato in balia delle opinioni.

Rimediare a tutto questo è complicato, ma essere consapevoli del problema è già un primo passo.

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