L’Unione europea ha ancora un’arma nella sua guerra a Vladimir Putin che è restia a usare: l’embargo del petrolio, cioè lo stop all’acquisto di greggio di provenienza russa. A differenza del gas, che viaggia via tubo o (in modo più complicato) via nave, il petrolio si compra su un mercato globale ed è molto più facile sostituire un fornitore con un altro, anche se non certo indolore. Lunedì a Bruxelles si sono incontrati i ministri degli Esteri dei paesi membri ma non hanno raggiunto un accordo su nuove sanzioni petrolifere. La Germania, per esempio, si oppone.

La Russia vale il 13 per cento della produzione petrolifera mondiale e il 17 per cento di quella di gas.  Gli Stati Uniti di Joe Biden hanno decretato l’embargo l’8 marzo. Da allora la differenza di prezzo tra il petrolio Ural di origine russa e il Brent di altra provenienza ha continuato ad allargarsi: l’Ural è sempre stato un paio di dollari più economico del Brent prima della crisi ucraina, poi la differenza è diventata di 10 dollari a ridosso dell’invasione e e oltre 24 al momento dell’annuncio, un po’ a sorpresa, dell’embargo americano.

Ora siamo a più di 30 dollari di sconto dell’Ural rispetto al Brent, segno che gli investitori pretendono sconti sempre maggiori per un petrolio che temono di non riuscire a vendere, perché la possibilità di un embargo europeo non è zero.

Sul petrolio si vedrà veramente a cosa siamo disposti a rinunciare per mettere in ginocchio l’economia russa. I costi sono elevati ma gestibili: secondo le stime dell’economista Rüdiger Bachmann e dei suoi coautori, il blocco completo delle importazioni di petrolio russo costerebbe alla Germania tra lo 0,5 e il 3 per cento del Pil. Un impatto pesante, ma equivalente a quello di una recessione moderata.

Per gli Stati Uniti il sacrificio dovrebbe essere un po’ minore: come ha calcolato James Hamilton, della University of Southern California, il valore totale – tasse incluse – dell’economia petrolio raffinato negli Stati Uniti è il 4 per cento del Pil, se il 13 per cento è di origine russa, significa avere un impatto economico di mento di metà di un punto percentuale di Pil annuo. Una recessione media ne costa 5.

Shock senza precedenti

Il conto non è così semplice, però, per due ragioni. Primo: stimare gli effetti a cascata del calo di offerta di greggio, e del conseguente aumento di prezzo, è complicato. Nel settore automobilistico, per esempio, l’offerta era crollata perché dopo il Covid non si trovavano microchip, ma ora scenderà la domanda di auto a benzina, come accade sempre quando il prezzo del carburante sale.

L’impatto negativo della guerra sull’economia, inoltre, ridurrà ulteriormente la domanda, quindi l’impatto della rinuncia al petrolio russo sarebbe maggiore di quello che misurano le statistiche sul valore aggiunto del settore.

Inoltre, uno dei modi per reagire allo shock di offerta di una fonte energetica è spostarsi sulle altre. La Russia, però, controlla il gas ancor più che il petrolio e non sarebbe un gran risultato se invece che finanziare Putin con il greggio finissimo per dargli gli stessi soldi ma soltanto per effetto di prezzi record del gas.

I maggiori shock energetici del Novecento – dall’embargo dell’Opec nel 1973 alla rivoluzione iraniana del 1090 fino alla Guerra del golfo del 1990 – hanno determinato riduzioni dell’offerta globale di petrolio tra il 4 e il 7 per cento, con l’effetto di spingere i prezzi al rialzo tra il 45 e il 93 per cento.

Nell’ultimo anno il petrolio Brent è già aumentato del 111 per cento, non soltanto per effetto della crisi russa ma di un insieme di fattori che continueranno a produrre i loro effetti.

A fine 2021, la domanda di benzina negli Stati Uniti era già tornata a livelli pre-Covid, con il numero di miglia percorse in media da un americano superiore del 2,5 per cento rispetto al 2019. Ma l’offerta, invece, non si è mai ripresa: a novembre 2021 era inferiore di 3,3 milioni di barili al giorno rispetto all’inizio del 2020, secondo i dati della US Energy Information Administration.

In estrema sintesi, l’andamento del prezzo durante il Covid, con il greggio che è arrivato ad avere valori negativi (in pratica chi lo aveva pagava per smaltirlo per non sostenere i costi di stoccaggio), ha spento gli entusiasmi per l’investimento nel settore, gonfiati per anni dal miraggio dei profitti nello shale oil (l’estrazione dalle rocce). E quando c’è strutturalmente più domanda che offerta, i prezzi sono destinati a salire.

Verso la recessione?

Infine, la politica monetaria: senza addentrarsi troppo nei dettagli, sia Federal Reserve che Bce sembrano oramai irrimediabilmente indietro nell’adeguare i tassi di interesse alle spinte inflazionistiche. Hanno sostenuto a lungo che l’inflazione da ripresa post-Covid era provvisoria, dovuta a catene di produzione spezzate dalla pandemia che si stavano ricostruendo. Ma quando due fenomeni provvisori si saldano – la ripresa dalla pandemia e lo guerra in Ucraina – anche le variazioni permanenti iniziano a sembrare durature, almeno nel medio periodo.

Morale: per rimediare ai ritardi, sia Fed che Bce dovrebbero alzare i tassi di interesse molto bruscamente, in modo da compensare anche l’inflazione in arrivo, con l’effetto di mandare in recessione Stati Uniti e paesi europei che già dovranno affrontare situazioni politicamente esplosive, tra guerra, rifugiati e aumenti di spesa militare.

Non è un contesto facile, e di argomenti per la prudenza ce ne sono molti. Ma ce ne sono altrettanti per sostenere che possiamo gestire sia l’embargo petrolifero alla Russia che la conseguente, ulteriore, impennata dei prezzi di petrolio e benzina.

Quando il greggio diventa molto costoso, tutte le alternative iniziano a sembrare allettanti. Il modo migliore per mettersi al riparo dai rincari della benzina è non dover usare un’auto a benzina. Quindi gran parte degli investimenti per la transizione ecologica che fino a febbraio sembravano troppo prematuri o onerosi, dall’abbandono del motore a scoppio a quelli per una mobilità alternativa, diventano non solo urgenti ma perfino politicamente allettanti.

Poiché le risorse non sono infinite, bisognerà fare delle scelte: i miliardi pubblici europei e americani verranno usati per combattere Putin attraverso la corsa al riarmo militare o attraverso la transizione ecologica?

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