Stanno facendo molto discutere i banner pubblicati recentemente sui siti internet di alcuni tra i maggiori quotidiani nazionali. Questi banner pongono i lettori di fronte a un’alternativa: pagare un corrispettivo molto modesto per la lettura di un articolo oppure cedere il proprio consenso all’utilizzo dei cookie per finalità commerciali.

I cookie sono piccoli file che permettono a un sito web di tracciare alcuni dati di navigazione e alcune preferenze dell’utente, individuando e riconoscendo i suoi bisogni, per offrirgli contenuti pubblicitari personalizzati.

E’ lecito pagare un prodotto o un servizio con i propri dati personali?

Già nel 1997, all’indomani dell’approvazione della prima legge italiana sulla privacy, Stefano Rodotà rispondeva affermativamente a questo quesito.

Da primo presidente del Garante per la protezione dei dati personali, la sua Autorità aveva acconsentito a che i consumatori potessero cedere dati che rivelassero gusti, preferenze e interessi per ottenere gratuitamente l’accesso alla rete internet da un fornitore di servizi.

Le regole

A distanza di oltre vent’anni, quindi, cosa dice la legge? Il Gdpr, il regolamento europeo sulla protezione dei dati, prevede che il consenso dell’utente debba essere libero, specifico, informato e inequivocabile.

Non è possibile subordinare l’accesso a un servizio o a un prodotto alla cessione dei dati personali, ma bisogna offrire una possibilità alternativa, fornendo le informazioni necessarie affinché l’utente possa conoscere preventivamente l’uso che sarà fatto dei suoi dati personali.

Il Codice del consumo, recependo un’altra normativa comunitaria, ha ammesso la possibilità di utilizzare i dati personali quali corrispettivo per la fruizione di servizi digitali.

Il riequilibrio delle asimmetrie informative è l’architrave su cui poggia l’intera regolamentazione dei dati personali: i miei dati circolano, ma ho il diritto di sapere in che modo saranno utilizzati e per quali finalità.

Gli ultimi decenni ci hanno abituato a dati raccolti dai gestori di piattaforme e social network, con informazioni sul loro uso celate in una giungla di decine di pagine di informazioni legali.

E, soprattutto, non c’era la possibilità di strade diverse: se vuoi aprire il tuo profilo e interagire con amici e follower, devi darmi i tuoi dati.

Nel caso dei cookie wall, l’alternativa chiesta dal Gdpr, è chiara: per accedere a un articolo puoi pagare una piccola somma di denaro oppure puoi acconsentire al tracciamento delle tue preferenze.

Possiamo discutere della correttezza e della completezza delle informazioni fornite ai lettori, ma il meccanismo di scambio, forse essenziale e rozzo, è evidente.

La questione è ora al vaglio del nostro garante privacy. Per i garanti olandese e spagnolo è una pratica illegittima, per quello francese, se c’è un’alternativa alla cessione dei dati, invece no.

Vendere i dati

Occorre però sgombrare il campo da due fraintendimenti. Innanzitutto, l’idea che i dati personali non possano essere oggetto di alcuna forma di negoziazione: l’articolo 8 della Carta di Nizza ricomprende nel novero dei diritti fondamentali la protezione dei dati personali e non i dati stessi.

Il secondo vizio concettuale è un retropensiero ancora ricorrente: tutto ciò che circola in internet deve essere gratis.

Anche l’informazione è un diritto fondamentale, ma nulla mi legittima ad appropriarmi dei giornali in edicola per soddisfare questo diritto.

Un quotidiano è un tassello del pluralismo informativo, però un quotidiano è un’impresa privata, che ha bisogno di risorse economiche.

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