Le “streghe” sono tornate: quella paura degli uomini di fronte al potere femminile

A più di trent’anni da quando lo slogan impazzava nelle piazze, le streghe sembrano tornate davvero – nella piazza mediatica e nella piazza mentale degli uomini. Il potere delle donne non è ancora una realtà, perché le opportunità di accesso ai ruoli più elevati sono ancora diseguali, pure nel paese delle due leader, Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Ma il potere delle donne è ancora uno spettro nella testa degli uomini. Uno spettro che sta dietro al dilagare dei femminicidi, combinato con l’incapacità di molti maschi di gestire le relazioni con le donne nella loro vita in un clima di crescente emancipazione. Sta dietro all’affiorare ormai sempre più evidente della manosfera, cioè di quell’insieme di borborigmi rancorosi, teorie del complotto, cinismi parascientifici da quattro soldi che, sui social soprattutto, innervano le lamentazioni capricciose e ridicole di molti uomini frustrati. Sta dietro ai fenomeni di violenza sessuale dell’immaginario, cioè dell’esposizione in effigie e senza consenso del corpo delle donne nei vari siti scoperchiati negli ultimi mesi. Sta dietro soprattutto ai tic inconsulti del linguaggio. La trappola in cui è caduto Maurizio Landini, per esempio. Ma più recentemente e con molto più dolo, l’epiteto rivolto a Francesca Albanese da Danny Danon, rappresentante permanente di Israele presso le Nazioni Unite, durante la discussione dell’ultimo rapporto di Albanese. Il significato di un insulto Queste le sue parole (almeno quelle riportate, non è disponibile una trascrizione ufficiale, almeno a mia conoscenza): «Signora Albanese, lei è una strega. Questo rapporto è un’altra pagina del suo libro degli incantesimi. Ogni accusa è un incantesimo che non funziona, perché lei è una strega fallita». Ora, sui contenuti dei rapporti redatti da Albanese, sulle sue competenze, sulla sua figura e sulla sua gestione della notorietà si possono avere molte opinioni, anche molto negative. Ma dare della strega a una donna in posizione di potere, quando a farlo è un uomo, è rivelativo. In un testo fondamentale, Calibano e la strega (2020, Mimesis), Silvia Federici ha spiegato come la caccia alle streghe fra XVI e XVII secolo sia stata parte della costruzione del dispositivo del patriarcato moderno, in cui il corpo delle donne e le loro capacità riproduttive erano inquadrate nell’ordine della produzione capitalistica. Le presunte streghe erano l’ultimo sussulto di devianza femminile. Quali che siano le precisazioni che si vogliono opporre a questa ricostruzione storiografica, chiamare “strega” una donna di potere ne conferma almeno la parte negativa, cioè l’intenzione di assoggettare le donne e di tenerle lontano dal potere. E farlo è una forma evidente di misoginia, secondo la definizione che ne ha dato Kate Manne (Down Girl. The Logic of Mysoginy, 2018, Oxford University Press), cioè un tentativo di mantenere le donne in una posizione di subordinazione e asservimento rispetto agli uomini, all’interno di un mondo patriarcale. Uomini, il marcio è tra noi. Bisogna avere il coraggio di affrontare un amico Gestire le paure Il potere delle donne, dunque, fa paura anche quando non c’è (ancora). Immaginarsi la fine del patriarcato è pauroso, per gli uomini: c’è la paura di perdere posizioni, di perdere un potere che sembra scontato. Forse, questa paura è l’ostacolo più forte alla fine della dominazione e all’eguaglianza fra i sessi. Ed è probabile che, oltre e più che fare leggi, codici di condotta o stabilire quote, sia questa la mossa più urgente: gestire questa paura. Gestirla quando si è uomini, il che vuol dire ammetterla, ma senza consentirle di diventare una scusa: dire che si teme di perdere posizioni, senza per questo giustificare la resistenza maschile all’emancipazione femminile, e senza chiedere alle donne di farsi carico del nostro sconforto – senza chiedere quello che sarebbe ancora una supplenza delle donne, un affidare solo a loro un lavoro di cura, un mankeeping indebito e offensivo per le vittime del patriarcato (lo ha fatto bene Francesco Pacifico, nel suo La voce del padrone, 2025, add editore). Ma le donne e le femministe debbono evitare autogol, di fronte alla paura degli uomini, come la sgangherata campagna di demonizzazione di alcune influencer sedicenti femministe. Come avviene in molti movimenti attivisti, estremi di questo genere – frutto anche dell’ecosistema dei social – fanno danni incalcolabili ed evitarli, o isolarli, è una necessità evidente. Solo così il potere delle donne non sarà più spaventoso, ma solo un atto dovuto, un momento di ordine morale. Meno social, più piazze. Fare femminismo non è essere un’influencer