Le certificazioni Covid-19 continuano a essere tema controverso. Sembrava che tutto fosse stato finalmente definito dal decreto del presidente del Consiglio, Mario Draghi, che il 17 giugno scorso aveva precisato le modalità di rilascio delle certificazioni nazionali, nonché le condizioni per l’operatività del Regolamento Ue sul “green pass” (2021/953), che dal primo luglio garantisce l’interoperabilità delle certificazioni dei Paesi dell’Unione europea, per spostarsi sul territorio Ue.

Invece, torna in discussione la validità della certificazione in Italia, che attualmente parte quindici giorni dopo la prima dose. La causa è la cosiddetta variante Delta che, come avvertono gli scienziati, prolifera tra coloro i quali non sono vaccinati o non hanno conseguito un’immunizzazione completa. «Una sola dose di vaccino non copre adeguatamente», ha detto Franco Locatelli, coordinatore del Comitato tecnico scientifico..

«È verosimile che la variante Delta ci vedrà costretti a rimodulare il green pass – ha poi affermato il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri - rilasciandolo dopo la seconda dose di vaccino: ma è presto per dirlo, aspettiamo ancora i dati di una o due settimane».

Il certificato Covid con una sola dose di vaccino

Nel maggio scorso, un decreto legge ha previsto che la certificazione Covid-19 sia emessa «contestualmente alla somministrazione della prima dose di vaccino», con «validità dal quindicesimo giorno successivo alla somministrazione fino alla data prevista per il completamento del ciclo vaccinale» (d.l. n. 65/2021).

Il rilascio sin dalla prima dose, oltre al prolungamento a nove mesi (prima era sei mesi) della scadenza dopo la seconda dose, ha rappresentato una novità rispetto al decreto che aveva introdotto la certificazione stessa (d.l. n. 52/2021).

La norma, peraltro, è conforme a quella del Regolamento Ue secondo la quale il certificato è rilasciato «dopo la somministrazione di ciascuna dose» e indica «se il ciclo di vaccinazione è stato completato o meno». Inoltre, sempre in base al Regolamento, ogni Stato è libero di abolire restrizioni anti-Covid per i propri cittadini dopo la prima dose, ma deve applicare lo stesso trattamento anche agli altri cittadini dell'Ue, accettando certificati di vaccinazione di Stati esteri alle stesse condizioni previste per i propri.

La scelta dell’emissione del “green pass” dopo una sola dose, dunque, rientrava nella facoltà del presidente del Consiglio. Va comunque rilevato che nella maggior parte dei Paesi Ue il documento vale solo in seguito al completamento del ciclo vaccinale. Perciò non basta l’attestazione della prima dose per spostarsi dall’Italia verso tali Paesi.

Le perplessità sulla norma

Su queste pagine erano state espresse perplessità sulla disposizione che conferiva “validità” alla certificazione sin dalla prima dose, fondate in primo luogo sul fatto che le autorità sanitarie indicavano la piena immunizzazione solo dopo il completamento del ciclo vaccinale.

Dunque, accordare normativamente “libertà” già a partire dalla prima dose avrebbe potuto rappresentare un rischio. Ma era l’epoca del “rischio ragionato”, di cui aveva parlato il presidente del Consiglio. Così si era reputato che Draghi, in base a un bilanciamento tra diritti e interessi, avesse deciso che quel rischio potesse ragionevolmente essere corso per godere di certe libertà – ad esempio, partecipare a eventi pubblici e a feste per cerimonie, e tra qualche giorno anche andare in discoteche all’aperto - quindi, anche per consentire l’entrata in Italia di stranieri vaccinati a metà. Ma il “ragionamento” sottostante alla decisione di emettere il certificato dopo una sola dose non era stato chiarito come sarebbe stato necessario fare.

In secondo luogo, i dubbi sulla norma contenuta nel decreto del maggio scorso riguardavano la sua formulazione. Essa è stata redatta – come detto - sulla falsariga di quella del regolamento Ue sul “green pass”, che permette di distinguere tra emissione della certificazione, intesa come un documento che “validamente” attesta l’avvenuta prima dose, ed efficacia della certificazione stessa come “lasciapassare” per accedere a determinati luoghi o attività, che può essere ancorata alla prima dose ovvero al completamento del ciclo vaccinale.

Anche la disposizione del decreto di maggio potrebbe essere interpretata nel senso di consentire l’emissione di un certificato “valido” sin dalla prima dose, ma “efficace” per l’accesso a luoghi e servizi solo con il completamento del ciclo vaccinale. Tale interpretazione, fornita a maggio su queste pagine e rimasta minoritaria nell’entusiasmo generale per le riaperture, forse ora può tornare utile: basterebbe un atto del Ministero della Salute per far “funzionare” il “green pass” solo dopo la seconda dose.

Le conseguenze della rimodulazione

Rendere la certificazione Covid-19 un “lasciapassare” dopo il completamento del ciclo vaccinale può incidere sui programmi delle persone – ad esempio, quelle che avevano organizzato feste di matrimonio o altre - contando sulla “libertà” dopo la prima dose. Ma soprattutto il cambio di rotta rischia di mandare all’aria le vacanze dei turisti vaccinati all’estero con una sola dose, che forse le avevano prenotate in Italia per il fatto di poter entrare anche senza aver completato il ciclo vaccinale. La scelta del “green pass” dopo una dose, se sarà revocata passando a due, rischia di rilevarsi un boomerang in termini di affidamento delle persone, oltre a pregiudicare i loro programmi.

Inoltre, probabilmente servirà apportare modifiche al sistema tecnologico su cui si basano le certificazioni, secondo il quale la loro verifica è effettuata mediante la lettura del codice a barre attraverso l’App VerificaC19.

La App consente al verificatore di controllare l’autenticità, la validità e l’integrità della certificazione, senza rendergli visibili le informazioni che hanno determinato l’emissione della certificazione (guarigione, vaccinazione o esito negativo del test). La modifica del parametro delle dosi necessarie per il “semaforo verde” via “green pass” potrà richiedere aggiustamenti, e ciò rischia di incidere sui rilasci, circa i quali già sono rilevati ritardi.

Infine, Sileri ha affermato che legare l’operatività della certificazione a una sola dose di vaccino non è stato un errore, poiché all’epoca «i dati mostravano che andava bene». Insomma, per motivare la scelta di disattendere le indicazioni delle autorità del farmaco e consentire che il certificato verde funzionasse dopo la prima dose – scelta non chiara sin dall’inizio, come detto, né chiarita dopo - si richiamano “dati” senza altre spiegazioni; può immaginarsi che su “dati” non meglio precisati sarà fondata la scelta di fare retromarcia e rendere efficaci le certificazioni Covid-19 dopo due dosi; e sin dall’inizio l’azione di contrasto al virus è stata condotta su “dati” rimasti opachi, nonostante il cambio di governo.

Dopo circa 18 mesi dall’inizio della pandemia, per la trasparenza dei dati e, conseguentemente, delle scelte si resta ancora in fiduciosa attesa.

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