Si avvicinano le amministrative e si torna a discutere delle primarie. Tra chi le osteggia, c’è chi dice che i candidati a sindaco dovrebbero essere scelti dai leader di partito, tenuti a dare la linea e assumersene il rischio (ad esempio, Francesco Piccolo su Repubblica).

Altri preferirebbero far decidere agli iscritti, che si impegnano e pagano la tessera, per rafforzare il senso dei partiti come comunità (Piero Ignazi su questo giornale). Quello che sta capitando a Bologna può forse insegnare qualcosa. Sembra un caso da manuale, concepito in astratto per mettere in luce le dinamiche reali sottostanti alla “democrazia nei partiti” e agli effetti delle sue diverse concezioni.

Caso da manuale

Nel Pd bolognese sono emersi da mesi due principali contendenti per la successione a Virginio Merola. Matteo Lepore ha alle spalle dieci anni di lavoro politico nel palazzo comunale, centinaia di eventi e molte relazioni coltivate da assessore nel mondo della cultura e delle start up, oltre a due sponsor d’eccezione: il sindaco uscente e il presidente Unipol, Pierluigi Stefanini.

Cuore a sinistra, con una parentesi renziana, come tanti. Alberto Aitini conosce bene il partito ed è riconosciuto dagli iscritti come persona di buona formazione, concreta e affidabile, efficiente organizzatore di feste dell’Unità e congressi. Assessore alla sicurezza dal 2018, con quelle stesse doti ha convinto anche una fetta di opinione pubblica cittadina.

Cosa sarebbe successo se avesse “deciso il partito”, senza le primarie? Bella domanda.

“Il partito” avrebbe potuto produrre tre decisioni diverse, a seconda del metodo scelto e della conseguente “centralità” attribuita agli iscritti, al leader o ai quadri. Se fosse stato ascoltato il popolo degli iscritti, sarebbe prevalso senza dubbio Aitini.

Una consultazione svolta lo scorso novembre ha effettivamente dato questo esito. Se avesse scelto il segretario nazionale, sarebbe stato scelto Matteo Lepore, ben visto sia da Zingaretti che da Letta.

Se invece su una possibile candidatura unitaria fosse stato chiamato a decidere l’organo collegiale formalmente deputato – l’assemblea cittadina del Pd – sarebbe stato probabilmente scelto Andrea De Maria, ex segretario provinciale e parlamentare, il più capace di mantenere relazioni molteplici e di presentarsi come un punto di equilibrio tra le “componenti”.

Forti scontenti

Ciascuno di questi metodi avrebbe creato forti scontenti perché né gli iscritti, né il segretario nazionale, né i capicorrente locali godono di una legittimazione talmente forte e indiscutibile da mettere a tacere chi si sarebbe sentito ingiustamente escluso.

Al di là del giudizio che se ne dà in generale, in casi del genere, le primarie non sono solo una liturgia imposta dallo statuto o un pegno da pagare al mito fondativo dell’Ulivo diventato partito. Sono quasi una strada obbligata, per legittimare la scelta e ridurre i rischi di rotture.

La lezione non finisce qua. Le primarie, attribuendo la scelta a una platea molto più ampia e meno strutturata delle tre precedenti, consentono candidature (popolari tra gli elettori) che tra iscritti, dirigenti e leader di partito non avrebbero avuto chance.

La carta Conti

Così, ha alzato la mano anche Isabella Conti, sindaco in carica di San Lazzaro di Savena, uno dei comuni attaccati a Bologna che di fatto costituiscono parte integrante della città.

Rieletta nel 2019 con l’80 per cento dei voti, è appena uscita indenne da un processo che avrebbe potuto rovinarla economicamente, a cui è andata incontro per aver bloccato un grosso intervento edilizio nel quale aveva forti interessi anche Coop Costruzioni.

Oggi i suoi handicap principali sono l’adesione a Italia viva (seguito al gelo di parte del Pd verso quella scelta) e l’endorsement di Renzi.

Le primarie diranno se ha un seguito sufficiente per competere e se la sua è la candidatura più forte che oggi il centrosinistra possa esprimere. Sta di fatto che, senza le primarie, questa ulteriore opzione non sarebbe mai emersa.

La cosa ancora più interessante è che i tre principali protagonisti, per quanto popolari in tre diverse platee, hanno un profilo incredibilmente simile.

Nati tra l’80 e l’84, sono tutti e tre cresciuti politicamente dentro organizzazioni della sinistra giovanile. Lepore e Conti hanno frequentato lo stesso liceo di Bologna.

Tutti e tre sono stati ottimi studenti dell’Alma Mater (Università di Bologna), anche se in facoltà diverse che un po’ li raccontano (scienze politiche, statistica, giurisprudenza). Tutti e tre hanno una solida esperienza amministrativa.

Che si presentino separati o che in due si alleino, e chiunque vinca, se le primarie saranno veramente aperte e corrette, tutta la città ne sarà in qualche modo coinvolta, tutto il centrosinistra ne uscirà rafforzato.

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