A fasi alterne, le primarie sono state esaltate o maltrattate, da politici e commentatori. Oggi capita spesso che anche analisti normalmente inclini a esaltare le virtù della “società civile” e della partecipazione si ritrovino a considerare preferibile che a decidere le candidature a sindaco siano, sempre e comunque, i dirigenti di partito. Sottolineo che si tratta dalle primarie a sindaco, perché non tutte le primarie sono uguali.

Il sindaco è una figura che molti residenti conoscono, su cui tanti pensano di poter dire la propria e avrebbero voglia di esprimerla, che viene scelta e valutata meno di altre sulla base di pregiudizi ideologici o appartenenze di partito, più di altre sulla base di un giudizio che riguarda qualità personali (intelligenza emotiva, disponibilità al confronto, indipendenza, visione, autorevolezza, dedizione per il servizio pubblico).

Avere candidati e sindaci che rispondano a queste aspettative rappresenta un vantaggio di lungo termine per le forze politiche di cui ha goduto soprattutto il centrosinistra, nelle fasi in cui è prevalsa tra i dirigenti di partito l’idea che fosse meglio avere candidature forti e rappresentative di una ampia area dell’elettorato che di stretta osservanza della propria corrente.

Le primarie aperte volevano e possono essere una consapevole “cessione di sovranità” dei gruppi dirigenti all’opinione pubblica cittadina, anche a quella che i partiti normalmente non intercettano, e al tempo stesso lo strumento per istituzionalizzare un circuito virtuoso di partecipazione, coinvolgimento, scelta dei candidati più popolari.

È ovvio che le due cose stanno o cadono insieme. Si partecipa più volentieri dove una effettiva cessione di sovranità consente una reale competizione tra profili diversi. Al contrario, in questa fase, le primarie vengono interpretate come un modo per legittimare decisioni che i dirigenti non hanno avuto il coraggio di prendere o che non avrebbero potuto prendere negli organismi di partito. Il caso di Bologna è reso ancora più emblematico da una circostanza davvero inusuale.

Le scelte di Conte

Giuseppe Conte ha da poco affermato, a ragion veduta, che i Cinque stelle con la sua guida possono ambire a dialogare anche con elettori moderati, non tradizionalmente prossimi al centrosinistra. È leader in pectore di un partito che fa primarie e votazioni interne iper-protette, riservate solo a chi è iscritto alla piattaforma Rousseau, e che a Bologna non ha aderito alla coalizione di centrosinistra.

Ciononostante, è intervenuto personalmente per sostenere il candidato (Matteo Lepore) preferito da buona parte della dirigenza PD e dalla “sinistra-sinistra” contro la candidata (Isabella Conti) per cui si sono espressi apertamente proprio quegli ambienti moderati potenzialmente mobili con cui Conte vorrebbe dialogare. Nessuno degli esponenti Pd preoccupati delle “invasioni di campo” stavolta si è risentito.

Pare ovvio che in questo caso Conte abbia ricevuto addirittura un caloroso invito a esporsi, e che si prepari in questo modo a incassare il sostegno Dem su Virginia Raggi a Roma, qualora Roberto Gualtieri non arrivi al ballottaggio. Non è l’unico indizio, ma è certamente il più clamoroso, al tempo stesso dei timori che circolano ai piani alti del Pd sul possibile risultato bolognese e della torsione imposta alle primarie.

Da strumento di partecipazione messo a servizio della società civile cittadina, ritenuta abbastanza matura da poter essere sovrana nella scelta della candidatura migliore, a prosecuzione della politica nazionale di partito con altri mezzi.

Del resto, le componenti “dalemiane” del centrosinistra le accettarono controvoglia nel 2005, le hanno subìte quando nel 2007 divennero atto fondativo e norma statutaria del Pd, hanno poi ripetutamente tentato di affossarle. Ma la società italiana non è meno matura di quindici anni fa, i partiti non hanno visto crescere il numero degli iscritti, il ceto politico non gode di una autorevolezza maggiore di allora. Perciò, non è detto che le primarie finiscano qui.

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