Ho letto con interesse l’articolo di Andrea Capussela su questo giornale, sulle primarie aperte del Pd e la loro funzione. Ho apprezzato le argomentazioni in termini di teoria dei giochi, razionalità (la «logica dell’azione collettiva») e l’eleganza e chiarezza con cui Capussela ne fa uso.

Ma allo stesso tempo l’articolo mi ha turbato, essendo stato colpito favorevolmente dalla vittoria di Elly Schlein e dalle sue modalità, cioè proprio dal fatto che essa sia arrivata grazie ai non iscritti. L’avevo presa, quella vicenda, anche a simbolo di un’apertura, di un allontanamento, finalmente, da una certa politica anni Novanta, e ne avevo scritto su Domani come un’opportunità per liberarsi di una certa nostalgia per quel mondo, dove gli iscritti facevano baluardo al crollo della politica di prima, al berlusconismo avanzante e all’antipolitica emergente.

Le argomentazioni contro le primarie aperte

Ma le argomentazioni di Capussela sono molto convincenti. Da un lato, egli ricorda le critiche mosse su questo giornale da Piero Ignazi, Gianni Cuperlo e Carlo Trigilia: questa modalità di partecipazione consegna la selezione del leader a logiche televisive, a potentati capaci di raggruppare votanti, esprime una concezione individualista dell’impegno politico, indebolisce e mette in secondo piano i militanti e la comunità esistente nel Pd, che è un patrimonio e la base della legittimità di chi guida il partito.

Dall’altro, Capussela sostiene che per ora le primarie aperte sono un utile strumento per contrastare l’inquinamento clientelare del Pd, ma nel lungo termine le si dovrebbe abolire. Il ragionamento è il seguente.

I partiti servono a creare incentivi alla cooperazione, a far sì che le persone contribuiscano a produrre beni pubblici preziosi, che equivalgono essenzialmente alla difesa di interessi diffusi. Gli incentivi che i partiti mobilitano, per spingere gli iscritti a contribuire col loro impegno politico alla difesa degli interessi generali (quindi anche a quelli dei non iscritti), consistono essenzialmente in uno status privilegiato, quello che dà diritto di scegliere i dirigenti e di conseguenza la linea politica.

Questo status, questo potere costituente, scrive Capussela, «controbilanciano il costo della partecipazione alla vita del partito», attraendo così anche persone per le quali le «motivazioni (puramente) ideali non bastano». Le primarie aperte minano questo meccanismo, annullando la differenza fra iscritti e non iscritti. Usando un’altra nozione affine, si potrebbe dire che le primarie aperte tolgono valore a un bene posizionale, cioè un bene che rimane tale solo se non è (troppo) diffuso, vale a dire il bene di poter decidere chi governa il partito.

In questo momento, osserva Capussela, gli incentivi agli iscritti del Pd sono perversi, perché spesso derivano dall’opportunità di «acquisire incarichi, soldi o poteri pubblici (per poi piegarli a fini personali)». Quindi, per adesso, le primarie aperte sono utili. Poi, una volta purificato il partito, si potrà tornare a quelle chiuse, e al solo incentivo del potere costituente.

I costi della partecipazione?

L’argomentazione è elegante e coglie molti punti, come ho detto. Ma mi lascia perplesso, e cerco di spiegare perché. Capussela parla dei costi della partecipazione. Francamente, a me non pare che questi siano così cospicui, in un partito di massa.

O almeno, non mi pare che siano cospicui per persone che non ambiscono a incarichi, soldi o poteri. Cioè, non mi è chiara che differenza ci sia fra il militante che prende la tessera e magari va a qualche iniziativa del partito e il non iscritto che paga due euro e vota alle primarie.

L’unica differenza è il costo monetario della tessera, temo. Sarebbe questo il costo che la possibilità di determinare il segretario dovrebbe compensare? Mi pare eccessivo. Non mi pare che quella tessera sia un costo talmente alto da giustificare l’esclusione dei simpatizzanti.

Forse in realtà il problema è che determinare il segretario preme solo al secondo tipo di iscritti menzionato da Capussela, quelli che vogliono incarichi, soldi o poteri. Ma queste persone non andrebbero assecondate, mi pare di capire, secondo Capussela, e le primarie aperte li bloccano. E su questo io sono d’accordo.

Il partito non è una lobby

Inoltre, mi pare improprio lasciare ai soli iscritti il potere costituente, cioè il potere di determinare il segretario, proprio alla luce di una premessa che Capussela chiarisce e io approvo. I partiti rappresentano interessi generali, non sono lobby o gruppi di pressione. Lo sono anche, ovviamente. Ma vanno al di là di questo.

Ogni partito ambisce, o dovrebbe ambire, a proporre e realizzare politiche che vadano nell’interesse generale del paese, anche quando ciò richieda di fare valere di più certi interessi, perché più meritevoli di protezione. Il partito non è un sindacato o una lobby, appunto: non rappresenta interessi dati e statici.

Semmai, esprime una visione di quali interessi dovrebbero contare, anche alla luce di principi, come ricordava su questo giornale Federico Zuolo. Se le cose stanno così, l’azione del segretario di un partito di massa incide su tutti, su chi è iscritto e su chi non è iscritto, su chi lo vota (anche nelle elezioni vere e proprie) e su chi non lo vota. Se Schlein andrà al governo e farà certe leggi, queste ricadranno su molte più persone di quelle che l’hanno eletta alle primarie.

Uno dei principi fondamentali della democrazia è che chi ha interessi in gioco deve poter dire la sua sulle politiche che li toccano. Ovviamente, dire la propria significa anche potere incidere su chi darà la linea a partiti che possono, appunto, determinare politiche che toccano i nostri interessi.

Se le primarie sono un momento di democrazia (un momento ulteriore ed aggiuntivo, che ovviamente non si sostituisce alle elezioni vere e proprie) non possono che includere tutti i potenziali interessati alla linea ed alle politiche del partito. Altrimenti, si riduce il partito a lobby, per quanto rappresentativa di interessi generali. Per tutte queste ragioni, le primarie aperte mi sembrano un elemento prezioso, che distingue il Pd da altri partiti, nonostante tutti i loro difetti e le possibilità di inquinamento o distorsione che presentano.

Indipendenti di sinistra

C’è anche un’idea più generale di partito, sotto tutto questo, come ho detto, un’idea di partito come contenitore aperto, plurale, con differenti livelli di partecipazione.

Ci sono stati, lo ricorderanno i lettori più anziani, tanti cosiddetti “indipendenti di sinistra” nelle file del Pci negli anni migliori di quel partito. Persone come Lelio Basso, Stefano Rodotà, Gianfranco Pasquino, Mario Gozzini, Adriano Ossicini, Claudio Napoleoni, Ferruccio Parri, Carlo Levi, Franco Antonicelli, Altiero Spinelli. Persone che venivano elette senza che il Pci pretendesse l’iscrizione.

Forse l’epoca di quei profili intellettuali è passata e non bisogna rimpiangerla. Ma perché non pensare che tutto sommato sia un bene che il Pd apra le sue fila anche a una sorta di "indipendente di sinistra” collettivo, ricuperando e conservando la generosità e la lungimiranza civile di quei tempi?

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