Nelle scorse settimane, alcuni parlamentari della Lega hanno presentato una proposta di legge che vieta l’uso di denominazioni riferite a carne e a prodotti a base di carne per indicare prodotti che sono a base vegetale. La relazione di accompagnamento al disegno di legge menziona espressioni quali «bresaola di seitan», «bistecca di tofu» o «prosciutto veg».

Il fine del divieto parrebbe essere quello di evitare che tali denominazioni possano trarre il consumatore «in errore circa le caratteristiche dell’alimento, i suoi effetti o le sue proprietà» (art. 3), inducendolo a pensare che questi prodotti abbiano «un esatto equivalente nutrizionale (…) del prodotto a base di carne». Ma, proseguendo la lettura della relazione, si rende palese che il fine è soprattutto un altro: «Tutelare le produzioni zootecniche del nostro paese da coloro che vogliono offrire alternative di consumo».

Proteggere il settore

Insomma, il timore dei proponenti il disegno di legge è che le aziende del settore zootecnico siano esposte alla concorrenza di quelle produttrici di alimenti a base vegetale alternativi alla carne, e ne possano essere danneggiate. Tant’è che la prescrizione dell’obbligo di usare nomi propri della carne e delle sue preparazioni esclusivamente per «prodotti contenenti proteine di derivazione animale» viene definita come «operazione di giustizia sociale», tesa a tutelare le «corrette condizioni di mercato». Come se la competizione delle aziende che offrono alimenti alternativi alla carne verso quelle che offrono prodotti a base di carne costituisse una forma di concorrenza sleale.

L’effettiva finalità della proposta di legge è resa ancor più manifesta dalla comparazione, fatta nella relazione illustrativa, tra i «prodotti ottenuti mediante la lavorazione di vegetali» e quelli a base di carne. Dei primi si dice che vengono «macinati, mischiati, arricchiti con numerosi additivi, aromatizzanti e coadiuvanti (…); sostanze impiegate legittimamente, ma che non vanno assunte in misura eccessiva», facendo così capire che possano essere dannosi. Ai danni derivanti dal consumo eccessivo di carne, invece, non si fa alcun cenno.

La descrizione poco edificante della produzione di cibi a base vegetale è messa in contrapposizione alla virtuosa produzione di quelli a base di carne, definita come frutto di «impegno personale, manodopera e passione per l’allevamento animale (…) e la salvaguardia di ambiente e paesaggio, oltre che le capacità e le conoscenze specialistiche richieste per la stagionatura dei salumi o la corretta lavorazione delle carni». La contrapposizione sembra voler indurre a pensare che i cibi derivanti dai vegetali non siano oggetto di impegno e passione o non tutelino ambiente e paesaggio oppure non richiedano conoscenze specialistiche. Quanto alla «passione per l’allevamento animale» che connoterebbe l’industria zootecnica, le condizioni in cui gli animali sono tenuti negli allevamenti intensivi non depone per la fondatezza dell’assunto.

Si prosegue sostenendo che «vitamine, proteine, sali minerali» dei prodotti a base vegetale «sono sideralmente distanti da quelli dei prodotti della zootecnia», quindi costituiscono «alternative di consumo che non hanno tuttavia lo stesso apporto, ricchezza e valore nutrizionale». È grave che nella presentazione ufficiale di un testo di legge si faccia una tale generalizzazione, considerato che molti prodotti derivanti da vegetali hanno un contenuto nutrizionale equiparabile a quello dei cibi derivanti dalla carne.

La relazione introduce, poi, il tema dei cibi sintetici, definendoli come «un mezzo pericoloso per distruggere ogni legame con il cibo naturale» e denunciandone «i rischi per la salute e l’ambiente». Il fine è forse quello di indurre a credere che i prodotti di origine vegetale appartengano a tale categoria di cibi. Ma ciò non è sempre vero.

La decisione europea

AP

Il disegno di legge va in senso opposto a quanto deciso in sede di Unione europea, ove nel 2020 il parlamento europeo ha respinto gli emendamenti che chiedevano di qualificare come «bistecca, salsiccia, scaloppina, hamburger e hamburger» esclusivamente carne e prodotti, vietando tali denominazioni per i prodotti a base vegetale.

Nel 2017 la Corte di giustizia europea ha deciso che prodotti puramente vegetali «non possono, in linea di principio, essere commercializzati con denominazioni, come latte, crema di latte o panna, burro, formaggio e yogurt, che il diritto dell’Unione riserva ai prodotti di origine animale». L’uso di tali denominazioni è vietato anche se l’etichetta sulla confezione spiega l’origine del prodotto.

Ma la Corte ha anche affermato che le restrizioni previste per «i produttori di alimenti vegetariani o vegani sostitutivi del latte o dei prodotti lattiero-caseari» – restrizioni che non si applicano ad altri alimenti – non determinano disparità di trattamento rispetto ai «produttori di alimenti vegetariani o vegani sostitutivi della carne o del pesce». Si tratta, infatti, di «prodotti dissimili, soggetti a norme diverse». Peccato che l’Italia paia ignorarlo.

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