Se avessi conosciuto Rossana Rossanda di persona, forse, oggi, queste righe sarebbero diverse. Più tristi. Invece, avendola conosciuta attraverso gli articoli, gli interventi televisivi e radiofonici, avendo saputo, talvolta, che in certe telefonate di amici ci fosse lei all’altro capo del telefono, posso continuare a pensare che sia viva e continui a protestare.

Perché se dovessi e volessi sintetizzare la vita di Rossanda in due parole, userei protesta e analisi. Ma appunto, non la conosco, deduco parole scritte da altre parole scritte.

Insieme alla chioma bianca, al neo, a uno sguardo tagliente (parlo sempre e solo delle foto, della tv), Rossana Rossanda portava sul volto un’aria di eresia, e giustizia.

L’eresia dipende certamente dal mito della fondazione de Il Manifesto. La frattura col partito comunista, l’idea della rivista, Berlinguer che sconsiglia, ma non vieta – d’altronde Rossanda e il gruppo dei fondatori lo aveva solo informato -, il congresso del novembre 1969, la radiazione dal partito, la rivista pubblicata da un piccolo editore di Bari che diventa il giornale dai titoli più belli d’Italia, Il Manifesto appunto.

La leggenda vuole una lunga discussione sul titolo, la volontà di legarla comunque a Marx, la scelta che cade sul Manifesto del 1848. La giustizia, che è un termine più ambiguo, viene dalla storia prima de Il manifesto: l’essere stata partigiana durante la seconda guerra mondiale, l’essere nata a Pola, l’essere diventata giovanissima dirigente del Pci di Milano (ma forse il superlativo giovanissimo è un portato contemporaneo, dove siamo giovani fino a cinquant’anni).

Giusta ed eretica, partigiana e scissionista dal Pci, l’idea stessa di Rossana Rossanda mi ha sempre messo di buon umore, come un ossimoro tiene insieme due opposti: i ranghi del sistema e la libertà da essi.

Il primo nucleo de Il Manifesto che includeva, oltre a Rossanda, Pintor, Castellina e Magri mi è sempre piaciuto perché, in fondo, per compiere una piccola rivoluzione ha fondato una rivista, che poi è diventata quotidiano.

Rossana Rossanda, in fondo, mi è sempre piaciuta perché  all’eccezione di Berlinguer che eccepisce Il manifesto non è una rivista di ricerca, ma una rivista di intervento politico, Rossanda ribatte Che differenza c’è?

Ecco, a volerla vedere dalla fondazione del giornale, la vicenda di Rossanda e gli altri, è una storia che parla di libri, di editoria, di mediazione, della forma della memoria umana che è quella della pagina scritta, dell’importanza di scrivere perché non si dimentichi, dell’importanza di documentare perché tutti possano sperare che la propria storia sia utile a qualcun altro (e di solito lo è).

Le stesse lettere a il Manifesto – così come le domande degli ascoltatori di Prima Pagina Radio3 – sono state e sono la spina dorsale degli umori politici di un paese.

Ecco, io spero che tra le tante cose che è stata Rossana Rossanda – e che per me sarà ancora – rimanga questa equivalenza tra fare ricerca e fare politica attraverso le parole scritte dei quotidiani, delle riviste, dei libri.

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