Da quando Carlo Bonomi ha assunto la presidenza di Confindustria si sono succeduti diversi attacchi al governo, e ultimamente ai sindacati. Rileggendo la storia dell’industria italiana ci si chiede se essa abbia i titoli per avanzare tali critiche.

Come ricorda Filippo Cavazzuti nel suo libro Il capitalismo finanziario italiano, un’araba fenice?, l’industria italiana è da sempre stata protetta dalla concorrenza con finanziamenti a fondo perduto, finanziamenti agevolati e, finché c’è stata la lira, con svalutazioni  che rendevano da un giorno all’altro i prodotti italiani competitivi nel mercato internazionale (una droga il cui effetto si esaurisce in fretta).

Il mondo anglosassone ha guidato fin dall’ottocento la costruzione di un quadro normativo antitrust. Uno dei capisaldi è stato lo Sherman Act americano del 1890. L’autorità per la concorrenza negli Stati Uniti è la Federal Trade Commission costituita nel 1914. In Italia, l’Autorità per la Concorrenza e per il Mercato è nata soltanto nel 1990. Questo ritardo ha creato gravi distorsioni del mercato e ha rallentato la modernizzazione delle nostre aziende.  

La protezione ha frenato il ricorso al capitale di rischio, cioè all’entrata in Borsa. Infatti la Borsa italiana quota pochissime società in rapporto alla struttura industriale del paese. Negli Stati Uniti sarebbe impensabile che una società delle dimensioni della Barilla non fosse quotata. Sappiamo che la quotazione in Borsa, in base alle normative italiane e comunitarie,  richiede la massima trasparenza. Il bilancio annuale è pubblico, deve essere certificato e accompagnato da una relazione che indica, tra l’altro, i compensi agli amministratori e le quote azionarie della società da loro possedute.Troppi imprenditori hanno rinunciato alla raccolta del capitale di rischio per paura di questa trasparenza. Da questo deriva anche la sottocapitalizzazione cronica delle aziende italiane. Non solo non si cercava capitale di rischio, ma spesso i capitali venivano portati all’estero, come i vari condoni per il loro rientro senza sanzioni hanno dimostrato.

L’industria italiana, poi, si è addormentata sul principio  “piccolo è bello” che poteva essere giusto negli anni Cinquanta, quando nasceva la nuova imprenditorialità del dopo guerra, ma non dagli anni Sessanta in poi, quando si doveva capire la necessità del consolidamento per creare imprese con massa critica in grado di competere a livello internazionale, specialmente in settori chiave come la chimica, l’elettronica, l’aerospazio. In quest’ultimo settore operano in Italia circa settanta aziende ma l’unica in grado di competere nel mercato europeo e americano è la Leonardo, ex Finmeccanica. Su questo problema sarebbe dovuto intervenire anche lo Stato favorendo il consolidamento con incentivi fiscali.

La piccola dimensione di molte nostre imprese è anche causa del modesto investimento in ricerca e sviluppo. Solo le imprese al di sopra di una certa dimensione dispone dei capitali da destinare a ricerca e sviluppo. Anche in questo campo lo Stato è rimasto assente.

La nostra industria ha un modesto valore aggiunto perché, salvo rari casi, i nostri prodotti non contengono una tecnologia sofisticata. Vendiamo moda, fantasia, design, che nei momenti di crisi sono i primi a contrarsi. E questa situazione è dovuta ai ritardi della normativa antitrust, alla sottocapitalizzazione delle imprese, al mancato consolidamento delle stesse, alla mancanza di investimenti adeguati in ricerca e sviluppo.

Non si può poi dimenticare alcuni esempi di cattiva imprenditorialità come quella che ha portato al fallimento della Parmalat o quella dei capitani coraggiosi che hanno definitivamente affossato Alitalia. Nei primi anni duemila abbiamo assistito all’acquisizione di Telecom Italia e Aeroporti di Roma attraverso due operazioni di leverage (a debito) spinto da parte di imprenditori spregiudicati e senza capitali. Pure speculazioni, come dimostrano le successive vendite avvenute poco tempo dopo. Ma di queste due operazioni è responsabile anche lo stato che le ha permesse. Le privatizzazioni devono essere attuate con imprenditori che abbiano le risorse necessarie anche per assicurare lo sviluppo futuro.

Infine la Fiat. La famiglia Agnelli ha sempre avuto un deciso sostegno da parte del governo italiano, grazie anche ad alcuni suoi membri legati alla politica. Alla fine la famiglia Agnelli ha spostato il centro dei propri interessi negli Stati Uniti e FCA ha posto la sede legale in Olanda. Allora, di fronte alle critiche di Confindustria, viene spontaneo chiedersi: ma da che pulpito viene la predica?

© Riproduzione riservata